
I magistrati italiani non avrebbero condotto un’inchiesta efficace sulla morte di Gianfranco Laterza, operaio dell’ex Ilva mancato a 58 anni il 27 luglio 2010 a causa di un tumore ai polmoni che, secondo i famigliari dell’uomo, sarebbe stato dovuto all’esposizione a sostanze tossiche (in particolar modo amianto) sul luogo di lavoro: per questo la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia, in quanto “i tribunali nazionali non hanno fatto sforzi sufficienti per accertare la verità” e “la decisione di archiviare l’indagine non è stata adeguatamente motivata”.
Nel ricorso alla CEDU la moglie e il figlio dell’operaio, difesi dall’avvocato Luigi Esposito, hanno sostenuto che pubblico ministero e Giudice per le indagini preliminari, rispettivamente chiedendo e disponendo l’archiviazione del procedimento penale per omicidio colposo senza prendere in considerazione la perizia che dimostrava la correlazione tra la malattia dell’uomo e la sua esposizione a sostanze nocive nell’ambiente di lavoro, abbiano violato il diritto alla vita. Inoltre, il provvedimento di archiviazione, basato sull’esclusione dal fascicolo di “rapporti scientifici ed epidemiologici redatti in procedimenti penali simili” e della perizia di parte “riguardante la storia medica e la patologia” della vittima, ha impedito di identificare le persone responsabili dell’attuazione delle misure di sicurezza nello stabilimento.
Nella sentenza, la Corte evidenzia che, tenuto conto della giurisprudenza nazionale e del fatto che non era stata esclusa fin dall’inizio un’origine professionale della patologia di cui era morto l’operaio, i magistrati avrebbero dovuto ordinare ulteriori indagini per accertare l’eventuale esistenza di un nesso di causalità tra l’esposizione a sostanze nocive e il decesso dovuto all’insorgenza della patologia oncologica, al fine di individuare i responsabili di eventuali violazioni delle misure di sicurezza.
Marina Poci