Ucciso per un debito di droga: chiesto l’ergastolo per l’autista del killer e l’assoluzione per la madre della vittima

Di Marina Poci per il numero 398 de Il7 Magazine
Quando il sostituto procuratore della Repubblica di Brindisi Giuseppe De Nozza pronuncia le parole “ergastolo con isolamento diurno”, Cristian Candita, il 23enne di Francavilla Fontana accusato di concorso nell’omicidio volontario (aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi) di Paolo Stasi, è seduto accanto al suo avvocato, Maurizio Campanino, nell’aula Metrangolo del Palazzo di Giustizia messapico: Candita osserva il PM che avanza le richieste di pena senza battere ciglio e senza scambiare una parola con il difensore, mentre la sua vicenda processuale di primo grado si avvia verso un epilogo che, qualora la Corte d’Assise sposasse l’impianto accusatorio, al netto dei benefici di legge potrebbe privarlo della libertà personale per un tempo che ad un giovane della sua età deve apparire lunghissimo.
Proprio l’8 aprile, giorno fissato per la requisitoria di De Nozza e per la discussione dell’avvocato Domenico Attanasi (che difende le parti civili costituite, padre, madre e sorella della vittima), Paolo Stasi avrebbe compiuto 22 anni. Invece ne avrà per sempre 19, perché poco prima delle 18 del 9 novembre 2022 l’allora minorenne Luigi Borracino lo freddò con due colpi di pistola per un debito di droga, ammontante a circa 5mila euro, che Paolo, accanito consumatore di marijuana insieme alla madre, aveva accumulato per non avere pagato numerose dosi dalla “provvista” conservata in casa Stasi, divenuta nel tempo una vera e propria centrale di confezionamento e custodia di sostanze stupefacenti. Nell’abitazione francavillese di via Occhibianchi, in cui Luigi e Paolo passavano mezz’ora di tre o quattro pomeriggi a settimana tra bilancini, scotch e bustine di cellophan trasparente, Borracino (già condannato in abbreviato dal Tribunale per i Minorenni a 20 anni di reclusione per l’omicidio di Stasi e lo spaccio) non ci era arrivato da solo: ad accompagnarlo fu proprio Cristian Candita a bordo della Fiat Punto di famiglia, dopo un accurato sopralluogo avvenuto quattro giorni prima per accertarsi delle telecamere di videosorveglianza presenti nella via e sul percorso che verosimilmente Borracino avrebbe compiuto per arrivare, dal punto in cui Candita parcheggiò, alla casa di Paolo (l’argomento più probante a favore della ricorrenza della premeditazione).
Nel corso di tutto il procedimento penale Cristina Candita ha cercato di farsi passare semplicemente come l’autista del killer, ignaro delle reali intenzioni di Borracino e inconsapevolmente avviluppato, per un distorto senso dell’amicizia, nella volontà criminale di un assassino reo confesso accecato dal rancore e determinato a consumare la sua vendetta nei confronti di Stasi e della madre. Ma il PM, riportandosi alle emergenze probatorie del dibattimento e appellandosi al buon senso comune, smonta pezzo per pezzo questa narrazione che definisce “manipolatoria e mistificatrice della verità”, esordendo nella requisitoria con una premessa ad effetto (“una storia di ragazzi, ma non una storia per ragazzi”) che, al di là delle questioni strettamente giuridiche, consegna alle cronache la cifra amara della gioventù “compromessa” che popola questo processo.
Un processo nel quale Cristian Candita, oltre che di omicidio, risponde anche di varie imputazioni in materia di sostanze stupefacenti, per le quali il PM chiede 7 anni e 6 mesi e 42mila euro di multa, e nel quale di reati in materia di droga rispondono Luigi Borracino (per i fatti accaduti dopo il raggiungimento della maggiore età), per cui la richiesta di De Nozza è la condanna a 10 anni di reclusione e 60mila euro di multa; Marirosa Mascia, 2 anni e 20 giorni di reclusione e 11mila euro di multa; Sara Canovari (4 anni e 4 mesi di reclusione e 10mila euro di multa); Cosimo Candita (1 anno e 6 mesi di reclusione e 3mila euro di multa) e Annunziata D’Errico, la madre di Paolo Stasi, per la quale (“clamorosamente”, a detta di qualche presente), la Procura chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto. È questo, per restare nella metafora teatrale che De Nozza utilizza per tutta la prima fase della sua discussione, l’eclatante colpo di scena dell’udienza: per D’Errico, che il PM non esita a definire la “regista del copione” e “l’autrice morale dell’omicidio del figlio” (per avere – se non altro – tollerato che Paolo trasformasse l’abitazione in un avamposto del sodalizio criminale), non è stata raggiunta in dibattimento la prova della responsabilità penale e, pertanto, non è possibile avanzare una richiesta di condanna. Non sono sufficienti le conversazioni WhatsApp tra madre e figlio per sostenere che l’accordo tra Borracino e Stasi sull’utilizzo della casa per confezionare e custodire la droga sia stato suggellato dall’imprimatur, se non dal beneplacito, di D’Errico. “Il compendio probatorio è sceso sotto il limite del ragionevole dubbio”, spiega De Nozza, allorquando Luigi Borracino, ascoltato in aula su richiesta del proprio difensore, ha rifiutato di sottoporsi all’esame delle altre parti (avvocato di parte civile e avvocato difensore), rendendo con ciò inutilizzabili, per difetto del contraddittorio, le dichiarazioni predibattimentali e dibattimentali dell’imputato contro la donna. Una condotta processuale che il PM non esita a censurare apertamente e i cui esiti assolutori, effetto collaterale del maldestro tentativo di tenere al riparo Candita dall’incriminazione di omicidio o almeno dalle due aggravanti, De Nozza commenta con un dubitativo (ma non troppo) “Forse, a modo suo, in questa maniera Borracino involontariamente alla famiglia Stasi ha chiesto scusa”. Parole che nell’economia del processo assumono un peso specifico importante, rappresentando l’addentellato diretto delle pennellate con cui, al principio della requisitoria, il PM tratteggia l’esecutore materiale del delitto: un giovanissimo killer privo di freni inibitori, sul quale la forza del rancore ha prevalso sino al punto da non fargli sentire il bisogno di scusarsi con i famigliari di un ragazzo di 19 anni, che chiamava amico, a cui ha tolto la vita. Un 17enne che lavorava come operaio, a cui la paga da operaio non bastava. Un poco più che adolescente in grado di concepire un modello di organizzazione criminale altamente “professionale” e capace di reggere ai controlli di polizia. Il primo attore di questo dramma della peggio gioventù, al centro del palco anche quando potrebbe restare dietro le quinte. Come quando il 25 gennaio scorso si è sottoposto all’esame del suo difensore (“in zona Cesarini”, dice il PM) perché l’esame di Candita, tra contraddizioni e palesi nonsense, “era andato male”. È per questo che, secondo De Nozza, Luigi si presenta in aula, per venire in soccorso dell’amico coimputato in difficoltà. Non per offrire un contributo di verità alla vicenda, né per difendere se stesso, ma per parlare alla Corte presieduta da Maurizio Saso (a latere Adriano Zullo) di un Candita correo inconsapevole, che non era mai venuto in contatto diretto con la vittima (circostanza che serve a depotenziare di senso l’aggravante della premeditazione: d’altronde, “Come si può premeditare l’uccisione di chi non si conosce”, insinua il PM) e che lo accompagnò in via Occhibianchi soltanto per spaventare Paolo (i famosi “due colpi nelle gambe” che Borracino voleva infliggere a Stasi per impedirgli di chiamare i Carabinieri e denunciarlo).
Solo che, a parere del PM, le risultanze probatorie, che per Annunziata D’Errico non sono sufficienti a fondare la richiesta di condanna, per Candita sono robuste e inequivocabili, non suscettibili di interpretazione contraria a quella della Procura, capaci di superare – senza dubbi di sorta – le goffe dichiarazioni di Borracino e di Candita stesso, che non aveva mai parlato nella fase delle indagini preliminari, eppure in dibattimento prova a difendersi con un’attività “di manipolazione del fatto”, allestita per fare venire meno le aggravanti, che il PM valuta come “completamente fallita”.
Il dichiarato di Candita e di Borracino, dice De Nozza, non ha nessun rapporto, nemmeno “di lontana parentela” con il buon senso. Non regge la tempistica dei fatti del 9 novembre 2022, smentita dai tabulati e dalle celle agganciate dai telefoni dei due accusati dell’omicidio. Non regge la motivazione alla base delle due visite di Borracino a casa Stasi, smentita dalla logica e dal senso comune. E non regge la circostanza secondo cui il nome di Paolo Stasi arriva alle orecchie di Cristian Candita soltanto quando Borracino gli racconta di averci discusso, ossia, cronologia alla mano, appena 71 minuti prima di accompagnare Luigi ad ammazzarlo.
La ricostruzione di De Nozza è accurata, basata su evidenze tecniche e su argomentazioni razionali in effetti ineccepibili. Non c’è mai stato, secondo il PM, nel pomeriggio dell’omicidio, l’incontro in villa comunale tra Borracino e Candita, quello in cui Luigi confidò a Cristian di avere litigato con Paolo e gli chiese di accompagnarlo a casa Stasi per recuperare la busta verde (contenente la droga rimasta e il materiale per il confezionamento) e spaventare Paolo, che lo aveva minacciato di chiamare i Carabinieri se Luigi gli avesse ancora chiesto di rientrare del debito maturato. O, meglio, l’incontro ci fu, ma qualche giorno prima, per pianificare accuratamente le modalità del delitto: tentare di traslare in avanti l’episodio serve ai due imputati a evitare che esso valga a irrobustire la tesi della premeditazione, a favore della più lieve preordinazione. Nel momento in cui, secondo Candita, si incontrarono in villa, in realtà i due erano a chilometri di distanza, come dimostrato dalle celle a cui i rispettivi telefoni si agganciarono. Stando a quanto sostenuto dalla Procura, quel 9 novembre Borracino, a bordo del proprio scooter, si recò una prima volta a casa Stasi non per chiedere a Paolo di ripianare il debito e dirgli di non voler più restare in affari con lui, ma per precostituirsi il motivo del ritorno, un paio di ore dopo, e mettere in pratica l’omicidio.
La tesi secondo cui sarebbe dovuto tornare in macchina con Candita a recuperare la busta, che a suo dire non aveva potuto prelevare in quella occasione perché in scooter non c’era posto per trasportarla, sarebbe per il PM priva di ogni riscontro: lo stupefacente rimasto a casa Stasi era talmente poco che si sarebbe facilmente potuto collocare nel baule posto sotto al sedile (“e persino dentro al casco indossato”, dirà più tardi l’avvocato di parte civile Domenico Attanasi), e il materiale di confezionamento era di valore economico talmente risibile che non sarebbe valsa la pena correre un tale pericolo per portarselo dietro.
Nè vale la presunta minaccia di Stasi a giustificare la tesi del ritorno in via Occhibianchi al solo scopo di intimorire Paolo per impedirgli di rivolgersi alle forze dell’ordine: Paolo, dice il PM; “non aveva nessun interesse a chiamare i Carabinieri, perché il primo ad andarci di mezzo sarebbe stato lui, poi sicuramente ci sarebbero state conseguenze per la madre e forse anche per il padre”. Ancora, Candita afferma che l’intenzione di Luigi era quella di gambizzare Paolo, eppure dice di non sapere che Borracino fosse armato (“forse pensava di colpirlo con la fionda…”, osserva sommessamente Giuseppe De Nozza).
Anomalie, incongruenze, illogicità evidenti, che per la Procura valgono a palesare la dinamica dell’omicidio, il contesto in cui si è compiuto e le singole responsabilità di ognuno dei protagonisti.
Provata la premeditazione, lo spazio che il PM dedica all’aggravante dei futili motivi, è più breve: il conteggio delle presunte dosi consumate e non pagate, e dell’ammontare della relativa passività, già avvenuto nel corso dell’esame di Annunziata D’Errico e dei due imputati principali, vale a rendere nella requisitoria il senso della sproporzione tra le ragioni scatenanti e l’azione delittuosa commessa. La vita di Paolo, il 19enne schivo, socialmente isolato, il cui unico amico è il giovane di qualche anno più piccolo con cui imbusta e consuma droga, contro un debito di 5mila euro: uno squilibrio evidente, che integra gli estremi dell’aggravante contestata.
Non sfugge, nel corso della discussione, il riferimento di De Nozza all’utilità delle intercettazioni per la costruzione dell’impianto accusatorio del procedimento: riferimento che, oltre a rivelarsi necessario ai fini processuali (senza di esse non si sarebbe mai arrivati a scoprire che era in preventivo anche l’uccisione della madre di Stasi), appare quasi come una dichiarazioni di intenti “politica” in un frangente storico nel quale lo strumento investigativo viene fortemente messo in discussione. Nè sfugge, al momento delle richieste di pena, il senso di sconfitta della Procura davanti all’impossibilità di ritenere provata la responsabilità penale di Annunziata D’Errico rispetto alla imputazione di detenzione delle sostanze stupefacenti (“Sia chiaro, presidente, che io penso che le cose siano andate molto diversamente”, ammette De Nozza). Senso di sconfitta appena temperato dal conforto che “Viviamo in uno Stato di diritto”, ragione per cui considerare utilizzabili le dichiarazioni di Borracino contro D’Errico equivarrebbe a creare un “monstrum giuridico” potenzialmente in grado di minare i principi costituzionali che sorreggono l’ordinamento.
Dopo De Nozza prende la parola l’avvocato Attanasi: difende i famigliari di Paolo, il padre Giuseppe, la sorella Vanessa e la madre Annunziata, che nella veste di imputata è invece difesa dall’avvocato Francesco Monopoli. E il suo primo pensiero è esattamente per D’Errico, dai più considerata l’anima nera dell’intera vicenda, che Attanasi mira a riabilitare anche soprattutto dopo che il PM l’ha tacciata, senza mezzi termini, di essere la responsabile morale della morte del figlio: il difensore ne sottolinea la solerzia nel collaborare con gli investigatori non sottraendosi a nessuna domanda e invita i giudici, soprattutto i popolari, a non lasciarsi avvincere dalla narrazione corrente della madre carnefice e dai pregiudizi morali che in questi anni sono circolati dentro e fuori l’aula di udienza. “Avrà fatto i suoi errori, forse dovuti ad un malinteso senso della complicità genitoriale, ma considerarla moralmente responsabile è ingeneroso”.
Alla richiesta di risarcimento del danno “iure proprio” da perdita parentale e dei danni psicofisici riscontrati alla propria salute dopo la morte della vittima, che Attanasi ritiene documentati dalla circostanza che sia Annunziata D’Errico che Vanessa Stasi abbiano avuto bisogno di sostegno psicologico professionale, il difensore aggiunge la richiesta di risarcimento del danno (“iure hereditatis”) patito da Paolo nei tre o quattro minuti di sopravvivenza successivi agli spari: infatti, come riferito in aula dal professor Giorgetti, il medico legale incaricato dell’esame autoptico, Stasi potrebbe non essere morto all’istante, maturando quindi, in presenza di una minima attività cardiaca ed encefalica, la sconvolgente consapevolezza della fine imminente. Consapevolezza che certamente gli avrà causato una sofferenza astrattamente risarcibile e, come tale, rivendicabile dai congiunti.
La discussione dell’avvocato Attanasi si chiude nel primo pomeriggio con due istantanee che stridono l’una con l’altra: da una parte Giuseppe Stasi, il primo ad accorrere sull’uscio dell’abitazione di via Occhibianchi pochi istanti dopo aver sentito i colpi di arma da fuoco, che incontra lo sguardo di Paolo in una sorta di michelangiolesca “Pietà” tutta maschile in cui a tenere tra le braccia il figlio morente non è la madre, ma è il padre, ignaro comprimario di un dramma la cui portata, forse, ha realizzato soltanto nel corso del processo; dall’altra le risate, intercettate in macchina a due mesi dall’omicidio, tra Borracino e Candita, che immaginano di averla fatta franca e di raccontarsi la morte di Stasi tra dieci anni. Come fosse una bravata adolescenziale sfuggita al controllo dei genitori l’uccisione a sangue freddo di un ragazzo di 19 anni che, dice Attanasi, “forse avrà commesso i suoi errori, ma certo non meritava di uscire di scena così”.
Considerazione che chiude il sipario, per restare nel solco della metafora teatrale suggerita da De Nozza e cavalcata da Attanasi, sull’udienza, con rinvio al 27 maggio per la discussione dei difensori degli imputati, Cristian Candita su tutti.