Viaggio a Berlino dove il Muro ora è una strada: una capitale 3.0 con le sue croci

La bambina si è fermata ad osservare una decina di giovani che, spalle al muro, si scambiano sguardi d’intesa per partire al segnale del capogruppo. Siamo a Berlino, nella ‘striscia della morte’, quel corridoio compreso tra le due cinture di cemento, lunghe 43 chilometri, nella parte che costeggia le sponde dello Sprea.
E il muro è quel Muro. Quello che ha diviso per quarant’anni, non solo la capitale tedesca, ma due mondi, due ideologie, due società, due visioni opposte della storia dell’uomo.
E’ il 2019, trent’anni dopo la sua caduta, in una assolata e stranamente calda mattina di autunno, e su quel pezzetto di prato, mia figlia rimane imbambolata, con gli occhi meravigliati che solo una bambina di 4 anni può avere, a fissare questi ventenni che improvvisano una coreografia di balli latini, di quelli con cui ci martellano sulle spiagge, durante le nostre lunghe estati. Di certo, non può conoscere la storia del suolo che sta calpestando, non può sapere che fino a due generazioni fa, trovarsi in quella striscia di terra significava morte certa, sotto i colpi di mitra della volkpolizei. E chissà se di questa storia, quel gruppetto di giovani ballerini che si fa riprendere per postare su Instagram la loro di storia, ne conserva sufficientemente memoria.
Il Muro, ormai è un cimelio, quel chilometro rimasto in piedi appannaggio di turisti e curiosi è diventato una grande tela urbana sulla quale aspirano a cimentarsi i migliori writers del mondo. I murales più belli, quelli più famosi, li riconosci subito: si vedono da lontano i capannelli di visitatori intenti a farsi immortalare davanti al bacio di Vrubel, tra Brezhnev e Honecker, oppure sullo sfondo della Trabant, targata nov-9-89, che squarcia il cemento del muro.
A Ovest c’è lo Sprea, sul quale navigano i battelli per turisti, a est si si stagliano i grandi palazzi sedi delle compagnie commerciali e di servizi. In bicicletta raggiungiamo la Karl Marx Alle, un grandioso viale a doppia carreggiata, dai marciapiedi ampi e dotati di piste ciclabili. Lo percorriamo per raggiungere Alexander Platz, finché non ci viene fatto notare che eravamo contromano sulla pista ciclabile.
A Berlino non c’è traffico. Le rete della metropolitana è fitta ed efficiente, mentre, in superficie, la gente si muove in bici o, in maniera ancor più frequente, con i monopattini elettrici dello sharing, grazie ad una viabilità ciclabile impensabile per le altri grandi capitali europee. Del resto, Berlino non ha un centro storico. O almeno non ce l’ha per come lo intendiamo noi: nessun reperto, nessun monumento particolarmente antico, poche chiese. Dove passava il muro e lungo tutto il confine che circondava l’ovest, scorre la più grande arteria di collegamento urbano. Eppure la storia, soprattutto quelle più vicina, quella più dolorosa, è lì che ti guarda, che ti chiama. Ti chiama quando ti imbatti nelle croci commemorative delle persone uccise nel tentativo di fuggire dall’est; hanno più o meno tutte le stesse date tra il 1961-65, nei primi anni dell’edificazione del muro, oppure negli ultimi scorci degli anni Ottanta, quando ormai l’insofferenza era troppa e lo scricchiolare del Cremlino si sentiva fino al cuore della Germania; ti chiama quando abbassi lo sguardo durante un passeggiata per vedere cos’hai sotto il piede e ti accorgi di essere finita su una ‘pietra d’inciampo’, uno di quei sampietrini in bronzo che riportano il nome e la data di deportazione di qualche ebreo strappato alla sua vita durante l’olocausto. Senza vedere nulla di tangibile, tutto è storia a Berlino, una storia troppo importante e troppo recente.
Ad Alexanderplatz, ‘Alex’ come la chiamano i residenti, cuore turistico, commerciale e trasportistico della città, il Fernesthum, la torre della televisione, e l’orologio universale, simboli della vita sotto l’occupazione sovietica, conservano la loro aria malinconica di fronte alle insegne dei grandi marchi multinazionali, restituendo nella testa le immagini di Goodbye Lenin, la pellicola di Becker che racconta il cambiamento per gli abitanti dopo il 9 novembre 1989 e soprattutto la ostalgie, parola nata dalla crasi tra est (ost, in tedesco) e nostalgie, e che indica quel sentimento di nostalgia per la vita nella Ddr.
Pedalando, arriviamo fino alla spianata davanti la porta di Brandeburgo: è da qui che è passata la storia del secolo breve, dalle adunate naziste fino al discorso di Ronald Reagan del 1987: “Tear down this wall!” – abbatta questo muro! – disse il presidente repubblicano all’indirizzo di Michail Gorbaciov, l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, nell’ideale conclusione di un progetto politico che gli Stati Uniti avevano palesato fin dal 1963, quando l’allora Presidente Kennedy, in piena guerra fredda, rassicurò gli abitanti di Berlino ovest con il suo discorso “Ich bin ein Berliner”, io sono un berlinese. E sotto la porta di Brandebugo passò Karol Wojyyla, nel 1996, in un’immagine simbolo del suo lungo pontificato, colui che aveva superato le due dittature e considerato l’uomo chiave della liberazione dall’oppressione dell’Urss. Il Papa, lo statista, amante della libertà che attraverso l’Ostpolitik vaticana e l’ecumenismo cristiano ha riavvicinato i popoli tanto quanto i governi.
Attraversata la strada che costeggia la Brandeburger Tor, giungiamo al palazzo del Reichstag, sede del parlamento tedesco, sormontato da una modernissima cupola in vetro, in tempo per la nostra visita. Avanzare nella scalata interna della cupola, significa, non solo godere di una delle viste più belle della capitale, ma anche affacciarsi sull’assemblea legislativa e osservare i parlamentari del Bundestag durante i lavori e le votazioni. Il progetto architettonico, infatti, è completamente incentrato sui concetti di trasparenza e permeabilità delle istituzioni tedesche, a ribadire la distanza e la voglia di riscatto da quella Germania oppressa prima dal regime nazista e poi dall’occupazione comunista.
All’uscita del Reichstag, in direzione della porta di Brandeburgo, ci fermiamo attratti dalla proiezioni sulle facciate degli edifici che ospitano i gruppi parlamentari: un proiettore rimanda le immagini di trent’anni fa, mentre la filodiffusione suona New year’s day degli U2: folle di cittadini che da ovest e da est si riversano sotto il muro, lo picconano, lo scavalcano, si abbracciano, Gunther Shabowsky, segretario della Sed, il partito socialista dell’est, che annuncia: “tutti i punti di frontiera tra Berlino est e Berlino ovest sono aperti, da subito”. Berlino era libera, la Germania era riunificata, le persone , le famiglie di nuovo insieme. Anche questa è memoria. Per i berlinesi, ma soprattutto per noi, turisti per caso, che ci fermiamo davanti alle immagini viste quando eravamo piccoli, e non riusciamo a trattenere l’emozione, la stessa del 1989, la stessa che per molti anni a venire ci ha fatto sentire tutti europei.
Le giornate sono lunghe a Berlino, il sole pigro a tramontare, con le nostre biciclette a noleggio arriviamo vicini all’hotel, a Check Point Charlie, il luogo simbolo della frontiera tra ost berlin e west berlin. E’ rimasto ben poco dell’originario posto di blocco, se non una ricostruzione posticcia di una guardiola e le insegne luminose che ritraggono i volti di due militari, da un lato con la divisa delle forze Alleate, dall’altro con quella sovietica. Sullo stesso marciapiede ci sono Mc Donald e Starbucks. Ci sediamo sui salottini della famosa catena di caffè americana – qui non si trova nulla di meglio per il caffè – dalle grandi vetrate, sul marciapiede opposto, vediamo il Museo della Ddr sulla cui facciata campeggia la grande bandiera rossa, con falce e martello, della ‘madre Russia’. Ripenso per un attimo al 1992, al mio primo viaggio oltre la cortina di ferro, in una Praga lenta, grigia, misera, povera. Penso che sono stata fortunata ad averla vista allora, che la libertà non si vede se non nel momento della sua conquista. Guardo la bandiera rossa e penso a quella azzurra dell’Unione Europea che adesso, più che mai, sta vivendo i suoi giorni più bui, soffre del disamore, del discredito degli stessi popoli che l’hanno creata.
Il frappuccino al caramello che mia figlia non vuole più mi riporta al presente, la osservo, lei nata in un mondo libero, come sua madre, abituata a viaggiare, a conoscere bambini che parlano altre lingue, a gustare un gulash come un happy meal, e mi convinco, ancora una volta, che questa non sarà la società perfetta, ma è la migliore di tutte quelle passate.