
L’appunto, con cui Pausania dà notizia che la mossa di Pirro d’approdare nella nostra città prese alla sprovvista i Romani, pone dei seri dubbi sulla effettiva partecipazione dei Brindisini alla coalizione antiromana promossa dai Tarantini. Eppure la storiografia moderna non s’è neppure interrogata sulla questione, trovando più conveniente usare le solite semplificazioni di comodo. Nei casi del genere, quando due potenze egemoni sono in lotta, scatta la consuetudine che tutte le città limitrofe debbano necessariamente comportarsi come stati satelliti, ed essere perciò costrette ad aderire all’uno o all’altro campo.
Certo Brindisi non aveva una potenza pari a Taranto, né, soprattutto, poteva contare su un complesso di alleanze nemmeno confrontabile. Tuttavia, per secoli, aveva tenuto con profitto testa alla colonia lacedemone non consentendole di espandersi più di tanto nel Salento, per cui era in grado di farsi valere e di mantenere una propria identità. Ed in effetti, l’ipotesi che i Brindisini si astennero dal conflitto, sebbene scartata a priori dagli studiosi, pare di gran lunga la più vicina alla realtà. Dalle fonti emergono infatti solo pochi e contraddittori indizi che avvalorano una partecipazione dei Brindisini alla coalizione tarantina. Un paio li abbiamo già elencati: l’azione comune per contrastare i raid di Barbula sulle terre di confine delle due città salentine — per altro precedente l’effettivo scoppio della guerra — e la sollecitudine («prodúmos», attenendosi al termine usato da Plutarco) nel soccorrere il naufrago Pirro. Oltre queste due impalpabili menzioni, nei resoconti d’epoca pervenutici c’è traccia di un’eventuale presenza dei Brindisini in un’unica occasione, in un passo di un autore della cui affidabilità generalmente si dubita.
Descrivendo la strategia adottata da Pirro nello schierare le truppe nella battaglia di Ascoli Satriano (279 a.C.), Frontino cita infatti tra gli alleati del condottiero epirota, oltre naturalmente ai Tarantini, i Sanniti, i Bruzi, i Lucani ed anche i Salentini. Questi ultimi schierati sul fianco sinistro («sinistro… Sallentinis»). Ricordato che in questi elenchi, non veniva in genere citato il nome della città ma l’etnico dei suoi abitanti, e che per gli storici di lingua latina i Brindisini erano Salentini, deve rilevarsi che il titolo stesso dell’opera (“Stratagemmi”) tradisce gli interessi dell’autore per le tattiche e gli aneddoti, essendo le altre questioni per lui di secondaria importanza. Nel caso specifico è lo stratagemma adottato da Pirro — cioè a dire l’aver messo al centro i Tarantini, ritenuti pessimi combattenti — che sta a cuore a Frontino, non tanto chi prende parte alla battaglia. Non per niente Dionigi di Alicarnasso, autore di ben altra cifra e, in aggiunta, più vicino al periodo di accadimento dei fatti, si mostra d’avviso decisamente opposto e non contempla, in questa occasione, come in nessun’altra fase del conflitto, la partecipazione dei Salentini. In definitiva, sembra alquanto azzardato dar per certo il coinvolgimento dei Brindisini nella coalizione antiromana, sulla base di quest’unica, e per giunta dubbia, citazione.
Basterebbero di per sé queste considerazioni per far maturare una diversa ipotesi, e incominciare a pensare che, così com’era avvenuto in passato, i Brindisini s’erano ben guardati dall’allearsi con i Tarantini e dal prendere le armi contro i Romani. Ma, se ve ne fosse bisogno, c’è un brano di Cassio Dione, contenuto nell’epitome di Zonara, che consente di dare per acquisito che Brindisi si tenne neutrale e, conseguentemente, di considerare la guerra salentina in una diversa ottica: non più come una semplice appendice dello scontro che vide Taranto confrontarsi con l’Urbe — oppure una sua diretta conseguenza — ma al contrario un conflitto a sé stante.
A detta di Dione, i Romani mossero le armi contro Brindisi con il pretesto che vi era stato accolto Pirro e che erano state fatte incursioni contro i loro alleati. Nella realtà, però, volevano impadronirsi della nostra città, perché dotata d’un buon porto che costituiva un punto d’arrivo e di sbarco per chi navigava dall’Illiria e dalla Grecia. In pratica l’autore indugia sui retroscena e spiega i reali motivi che spinsero Roma a cercare lo scontro.
Tuttavia per cogliere meglio gli aspetti sostanziali del racconto, occorre riprendere, sia pure succintamente, quanto già detto riguardo agli scrupoli religiosi dei Romani (“Quando i Romani conquistarono Brindisi”, “Il7 Magazine”, n. 93, p. 23). Avevamo lì sottolineato come ogni evento bellico era considerato un atto teoricamente sacrilego che rischiava di provocare l’ira degli dèi e di far perdere il loro favore, se compiuto fuori dai crismi giuridici e religiosi. Per questo ogni conflitto doveva essere rispettoso del diritto e delle leggi divine e poteva coinvolgere la città solo se essa aveva subito un grave affronto. Almeno formalmente, tutto ciò implicava che Roma entrava in guerra solo quando si trovava dalla parte della ragione, seguendo inoltre lo specifico rituale disciplinato dal cosiddetto diritto feziale («ius fetialis»).
All’atto pratico c’era un organo sacerdotale, il collegio dei feziali, che, valutati gli eventi e constatata la sussistenza delle condizioni per dare avvio alle ostilità, svolgeva poi tutte le procedure che portavano alla dichiarazione di guerra («indictio belli»).
Nella sostanza il protocollo prevedeva che il «pater patratus» (il capo della delegazione dei feziali), presentatosi nel foro della città nemica, comunicava quali colpe le erano imputate e cosa Roma chiedeva a riparazione dell’oltraggio subito. Se la città avversaria non accettava entro un determinato tempo le condizione imposte, il collegio si recava ai confini del territorio nemico e lanciava un’asta, indicando così l’inizio del conflitto. .
Va chiarito che in tutto questo iter non c’era spazio per il contraddittorio, per cui la parte avversa non poteva né far presenti, né tantomeno far valere, le proprie ragioni. Di fatto, l’unico modo per evitare la guerra era piegarsi alle condizioni poste dai feziali e, quindi, dal popolo romano.
Ora siamo in grado di dare un senso più compiuto al passo di Dione. Esso infatti non fa altro che riprendere in forma succinta la fase in cui il «pater patratus» elencò le colpe addebitate alla nostra città e cosa l’Urbe pretendeva per sanare l’offesa subita.
Nello specifico Brindisi era accusata d’aver accolto Pirro e di avere fatto incursioni contro gli alleati dell’Urbe e le si chiedeva, a indennizzo del danno compiuto, di far gestire il porto alle autorità romane. Fermo restando che la non accettazione della clausola, fissata unilateralmente dai feziali, comportava un automatico stato guerra con Roma. Dal che si deduce che il contenzioso ebbe inizio successivamente all’arrivo di Pirro e, quindi, quando le ostilità tra Taranto e Roma erano già iniziate da tempo.
Occorre inoltre considerare che i feziali ricordavano i danni subiti per sottolineare che era la parte avversa ad essere in colpa. In altre parole, il collegio cercava di convincere gli dèi — ma soprattutto l’opinione pubblica — che Roma era giustificata ad entrare in guerra, perche costretta dai gravi oltraggi subiti dai nemici. È dunque evidente che più rilevante era la colpa addebitabile all’avversario, più diventava fondata l’azione intrapresa. Nel caso specifico, l’offesa che avrebbe potuto giustificare a pieno titolo la reazione dei Romani era che Brindisi si fosse alleata con i Tarantini partecipando perciò alle azioni di guerra. Se non esposero una tale causa, è ovvio che essa era palesemente falsa.
Di fatto i nostri antenati furono accusati di colpe inconsistenti; non a caso Zonara, nel compendiare Dione, chiarisce in maniera evidente che i Romani fecero ricorso ad un banale pretesto («profàsei»), per spiegare il perché del loro attacco a Brindisi. L’accusa di aver compiuto incursioni contro i loro alleati faceva infatti parte delle scuse standard, inserite d’abitudine in tutte le dichiarazioni di guerra. L’altra «iniuria», vale a dire quella d’aver accolto Pirro, non era certo una colpa ma una normale operazione commerciala. Era allora prassi che chiunque potesse fare scalo in un porto, purché non fosse un nemico o un malintenzionato e pagasse il dovuto pedaggio. Quali fossero poi i propositi dei viaggiatori nei confronti delle città più o meno vicine, non era certo compito di chi gestiva lo scalo il doverlo verificare e, meno che mai, il doversi far carico del problema. Fino a quando non si concedevano aiuti in armi o in soldati oppure, all’opposto, non si negava la possibile a qualsiasi tipo d’approdo, si era considerati neutrali. E Brindisi — lo testimonia l’accusa stessa dei Romani — non aveva fornito né armi né soldati a Pirro; s’era solo limitata a consentirgli di sbarcare.
D’altra parte, è del tutto evidente che, se Brindisi si fosse schierata contro i Romani, questi non avrebbero avuto bisogno d’un pretesto per muoverle guerra.
La dinamica degli avvenimenti ci consente poi di determinare quando i feziali espressero l’intenzione dell’Urbe di attaccarci.
I Romani, arresasi Taranto (272 a.C.), riuscirono a piegare tutti gli altri belligeranti entro l’anno successivo, estendendo in questo modo la loro influenza sul versante ionico. Dopo un paio d’anni di pausa, intrapresero la conquista del versante adriatico: dapprima sconfiggendo i Picenti (269 a.C.), una popolazione che in precedenza s’era mantenuta sempre in buoni rapporti con Roma, e poi pianificando, tra la fine del 268 a.C. e l’inizio del 267 a.C. l’invasione del Salento.
Il bellum sallentinum scoppiò pertanto quattro anni dopo la fine del bellum tarentinum. In pratica Roma tirò fuori il pretesto per iniziare le ostilità contro i Brindisini un bel po’ di tempo dopo l’eventuale affronto subito. Ed il perché appare evidente: finché era impegnata a guerreggiare in contemporanea contro Pirro, Tarantini, Apuli, Lucani, Bruzi e Sanniti, Roma aveva avuto tutto l’interesse a preservare uno stato di pace con i Brindisini e ad astenersi da azioni di rivalsa.
Sebbene obbedissero alla stessa volontà di conquista, le guerre fatte a Taranto ed a Brindisi seguirono pertanto progetti strategici distinti, oltre che avvenire in tempi del tutto diversi. In aggiunta, con Brindisi non c’erano conti da saldare, ma solo un’egemonia da imporre con la forza.
Fu in un giorno di primavera del 267 a.C. che le truppe romane, guidate dal console Attilio Regolo, invasero la nostra terra dando così inizio alle ostilità.
I Brindisini non rimasero però lì a guardare.
(2 – continua)