di Felice Rizzo per IL7 Magazine
Nelle riflessioni della settimana scorsa sulla figura del coach una mia frase relativa alla psicologia dell’allenatore, ha destato qualche perplessità in alcuni addetti ai lavori, che non hanno mancato di farmi notare che non è compito dei tecnici sostituirsi agli psicologi. Ho molto rispetto delle professionalità altrui e non mi permetterei mai di accreditarmi delle competenze che non possiedo: la “psicologia” cui facevo riferimento, però, non è quella certificata da studi specifici e da una qualifica professionale. La mia psicologia non è altro che il “buon senso”, che si acquisisce con l’esperienza sul campo, da applicare nelle varie situazioni che le dinamiche di gruppo propongono.
Il gruppo, appunto. Personalmente ritengo che il primo credo del coach-psicologo sia quello di salvaguardare l’identità del gruppo che gli è stato affidato, cosa che si verifica unicamente non mettendo un individuo contro l’altro: un impegno certosino, quotidiano, che non avviene solamente quando si intravede un problema, ma deve essere il risultato dell’applicazione costante di alcune buone norme.
La prima, indiscutibilmente, è quella di ottenere la fiducia del proprio giocatore: non è portandoli in pizzeria o in discoteca o trastullandosi con loro che si ottiene questo feeling, ma aiutandoli a comprendere la differenza ed il rispetto dei ruoli. Personalmente, non sono mai stato tenero e confidenziale in campo con chi ho allenato, ma ho sempre offerto la mia piena disponibilità (di uomo e di tecnico) al di fuori di esso, ricevendo rispetto, amicizia, affetto, che ancora durano nel tempo. E che considero con orgoglio il mio miglior successo.
La fiducia si ottiene, soprattutto, non facendo preferenze fra i propri giocatori (seconda buona norma “psicologica”): è indubbio che ogni coach, nel proprio intimo, abbia un debole per chi si impegna alla morte in allenamento, per chi applica con profitto in gara i suoi insegnamenti, per il talento o il prospetto futuribile, ma è importante che questo non venga recepito dal resto del gruppo. Nella gestione del “number one” della squadra nessun privilegio, quindi, se non quello di concedergli un minutaggio maggiore, unica cosa ben accetta anche dagli altri se porta a risultati concreti per l’intera squadra; ma anche tanto buon senso nell’amministrazione quotidiana degli eventi (Negli anni ’90 avevo una giocatrice fortissima che però disdegnava visibilmente il richiamo atletico del martedì, arrivando persino a fingersi affaticata pur di saltarlo; la mia… bravura psicologica fu quella di metterle in mano un pallone nell’esecuzione degli esercizi atletici, motivando agli occhi delle altre questa scelta individualizzata con delle fantomatiche necessità di carattere tecnico. In breve tempo quell’atleta abbandonò le sue fisime…ed il pallone, unendosi con determinazione al resto del gruppo).
Terza norma del buon senso: gli stimoli giusti. Stimolare la concentrazione innanzitutto: lasciarsi andare ad inutili proteste con gli arbitri, per esempio, riduce di colpo il grado di attenzione alla gara e questo non va bene nell’economia generale della squadra. In secondo luogo stimolare la disciplina, che non è un decalogo di leggi ferree del coach, né si ottiene urlando come degli ossessi con scenate spesso plateali (il tono di voce, anzi, va modulato a seconda delle necessità per evitare assuefazione); disciplina per me è educare alla puntualità, alla presenza costante, alla correttezza, al dialogo, alla soluzione dei problemi. Infine stimolare al lavoro: impegno, ritmo, determinazione, voglia di migliorarsi (e, da parte del coach, correggere, correggere ed ancora correggere).
Ci sono due momenti, a mio avviso, in cui la “psicologia” del coach è determinante: il rapporto con i genitori del giocatore e la gestione della sconfitta. Nel primo caso ho sempre incentivato un buon rapporto con i genitori, ma solo per conoscere – e possibilmente risolvere insieme – i problemi fisici, caratteriali o di crescita del figlio; al contrario, ho sempre stoppato serenamente, ma con fermezza, ogni ingerenza dei genitori nelle scelte tecniche, ogni protesta rivolta agli arbitri (“tieni, arbitra tu!” dissi ad un papà un po’ esuberante passandogli il mio fischietto), ogni commento riferito ai compagni di squadra del figlio.
Per gestire il naturale scoramento della sconfitta credo che l’unico rimedio sia quello di trasmettere equilibrio: per esempio, nelle mie esperiente tecniche ho sempre ritenuto dannoso commentare a caldo una partita (si potrebbero dire cose di cui pentirsi dopo poche ore), ho preferito far intravedere il bicchiere sempre mezzo-pieno, ho incoraggiato a migliorare le cose andate male in gara. Ma equilibrio anche nella vittoria: gioire sì, esaltarsi mai. La gioia porta entusiasmo, l’esaltazione induce all’appagamento.
La mia “psicologia” applicata al basket, il buon senso del coach, a mio avviso è tutto in una parola: rispetto! Imporsi ed educare al rispetto delle regole, al rispetto di sé stessi, dei compagni di squadra, dello staff tecnico e dirigenziale, degli arbitri e degli ufficiali di campo, degli avversari, del pubblico, degli operatori dell’informazione. Di coach e di giocatori bravi ce ne sono tanti: di coach e di giocatori che usano il rispetto come arma vincente ce n’è ancora tanto bisogno.