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Omicidio Carvone: la sentenza racconta la peggiore gioventù di Brindisi

Di Gianmarco Di Napoli per il numero 404 de Il7 Magazine

Il ritratto della peggio gioventù di Brindisi: ragazzi poco più che adolescenti, confusi nel sottobosco di una periferia che è ancora telecomandata dai boss di due storiche fazioni criminali, i Tuturanesi e i Mesagnesi, come i guelfi e i ghibellini. Perché i malavitosi “brindisini” non sono mai riusciti a conquistarsi l’iniziale maiuscola nella Sacra corona unita, succubi da sempre dell’originaria dicotomia dei padri fondatori, Pino Rogoli a Mesagne, Salvatore Buccarella a Tuturano.
Le motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Assise di Brindisi ha condannato all’ergastolo Giuseppe Ferrarese (all’epoca dei fatti 23enne) per l’omicidio del 19enne Giampiero Carvone non raccontano solo un efferato delitto, avvenuto per altro a tradimento, ma dipingono una realtà (in questo caso localizzata nel rione Perrino) in cui i ventenni si muovono come marionette senza cervello, spesso devastato dal consumo di cocaina, spietati, violenti, desiderosi di una scalata nel mondo della criminalità che inevitabilmente li porterà a trascorrere in carcere i migliori anni della loro vita. O, come nel caso di Ferrarese, tutto il resto dell’esistenza.
La sentenza della Corte d’Assise di Brindisi, presieduta da Maurizio Saso, a latere Adriano Zullo che ne è stato poi l’estensore, inquadra l’omicidio di Giampiero Carvone in un contesto ben più ampio di quello di un banale conflitto tra due ventenni: racconta il tentativo di scalata di un ragazzo, la vittima, poco avvezzo a rispettare le rigide regole imposte dall’alto e che viene ammazzato con il “silenzio-assenso” di chi a Brindisi avrebbe avuto il potere di salvargli la vita.
All’epoca del delitto, avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 settembre 2019, Brindisi era divisa in due fazioni che facevano riferimento ai boss della provincia. Una era capeggiata da Andrea Romano, affiliato di
Francesco Campana che, unitamente a Salvatore Buccarella, guidava il “clan dei tuturanesi”. Romano era affiancato da Francesco Coffa ed era pure coadiuvato da Angela Coffa (moglie di Romano), Annarita Coffa (sorella di Angela) ed Alessandro Polito (marito di Annarita)
E quella capeggiata da Luca Ciampi, affiliato di Daniele Vicientino che, con Massimo Pasimeni e Antonio Vitale, guidava il “clan dei mesagnesi”. Tra i “capizona” della città di Brindisi per la Sacra Corona Unita vi era pure Raffaele Brandi, che aveva tra i suoi affiliati Orlando CARELLA, , già condannato per associazione di stampo mafioso.
Le principali attività criminali svolte dai gruppi di Ciampi e Romano erano il traffico e lo spaccio di droga le rapine, le estorsioni, la detenzione ed il porto illegale di armi, i furti. Reati tramite i quali venivano acquisite ingenti disponibilità finanziarie, anche per sostenere gli affiliati detenuti e le loro famiglie. Un controllo che, in una città come quella di Brindisi, riguardava dunque numerosi quartieri, tra cui i rioni Commenda, Sant’Angelo, Paradiso, Sant’Elia, Bozzano e Perrino.
I due gruppi non erano in conflitto tra loro, in virtù di un’alleanza stipulata tra i rispettivi due capi.
E’ in questo contesto che viene inserita dai giudici della Corte d’Assise l’esecuzione di Carvone, un ragazzo nato e cresciuto al Perrino. Che qui aveva, quasi inevitabilmente, iniziato la sua scalata nella malavita, complici l’amicizia di coetanei appartenenti a famiglie già radicate da generazioni della criminalità. Si specializza nei furti d’auto, ma non accetta le regole. E così quando assiste all’aggressione di un ragazzo in un pub della città interviene in sua difesa e schiaffeggia uno dei rampolli di queste famiglie. Sarà il suo primo passo verso una lenta e inesorabile emarginazione. I genitori, il padre Piero, la mamma Patrizia Battisti, persino la nonna paterna, tentano in tutti i modi da un lato di convincerlo a non esagerare, dall’altro a spendersi per rimediare con i boss del quartiere alle sue azioni giudicate “irrispettose”.
Così quando, insieme ai soliti amici, ruba l’auto alla persona sbagliata, firma inconsapevolmente la sua condanna a morte perché sono i suoi stessi complici a rivoltarsi contro di lui che li ha messi nei guai. Uno di loro, Giuseppe Ferrarese, diventerà il suo assassino. Consapevole, secondo la sentenza.
Nella sera in cui Giampiero viene ammazzato, i genitori hanno il presentimento che qualcosa di grave sta per avvenire: la mamma gli manda messaggi al telefonino, il papà fuma nervosamente sul balcone. La sorellina, di nascosto, si affaccia sul passatoio che si affaccia sulla strada: vede il fratello all’angolo del marciapiedi e un’altra persona vicino a lui. E sente che quest’ultimo dice: “Giampie’, mi raccomando, fani lu ’ngarbatu, comportati buenu”. E il fratello che risponde “Sì, meh”. Poi mentre Giampiero si dirige verso il portone sente tre colpi di pistola. Il ragazzo cade davanti all’ingresso, il papà scende ed è il primo a soccorrerlo, ormai agonizzante.
Alla camera mortuaria non si presenterà nessuno degli amici-complici del ragazzo ucciso, i quali disertano anche il funerale.
Ma le indagini vengono indirizzate erroneamente e a lungo sul fronte opposto: quello di chi aveva subìto il furto dell’auto. Senza verificare alibi, senza approfondire piste alternative.
Dalle motivazioni della sentenza emergono alcune personalità determinanti per la soluzione di un’inchiesta che rischiava di fallire in maniera clamorosa, nonostante la soluzione fosse a portata di mano: il coraggio della ex fidanzata di Ferrarese che, ribaltando il teorema errato degli investigatori, indirizzò le indagini verso il vero omicida. La determinazione del padre di Giampiero, costretto a un certo punto a svolgere da solo le indagini su un fronte diverso e decisivo nel guidare gli investigatori verso la verità. Infine, ma assolutamente fondamentale, il ruolo della pm della DDA di Lecce, Carmen Ruggiero, che raccogliendo i cocci dell’indagine precedente è riuscita ostinatamente non solo ad arrestare l’assassino ma anche a farlo condannare.
Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise, il giudice estensore Adriano Zullo ha sottolineato come l’intento di Ferrarese fosse quello di uccidere, al netto delle perizie balistiche della difesa che sostenevano il contrario. Avendo sparato ad un’altezza di un metro e trenta era verosimile colpire la vittima ad organi vitali. E’ stata così respinta la richiesta della difesa di riqualificare il delitto in omicidio preterintenzionale.
Non vengono inoltre ritenute attendibili le dichiarazioni in parte autoaccusatorie rese da Ferrarese in aula, il quale aveva sostenuto che era stato Carvone a scendere dalla sua abitazione con una pistola e che i colpi erano partiti durante una colluttazione.
L’omicidio ai danni di Giampiero Carvone è stato commesso sia per motivi abietti (la vittima aveva rivelato la presenza di Ferrarese nel furto dell’auto) sia per agevolare l’attività della Sacra Corona Unita la cui presenza di un “cane sciolto” come Carvone correva il rischio di minare gli equilibri interni e soprattutto attirare l’attenzione delle forze dell’ordine sulle attività illecite che si svolgevano nel quartiere. L’interesse del clan era quello di eliminare un ragazzo che, nonostante la giovanissima età, stava diventando scomodo.
I giudici hanno escluso invece la premeditazione, non essendo chiaro quanto tempo prima di commettere il delitto Ferrarese si fosse procurato la pistola utilizzata per compierlo.
La Corte d’Assise di brindisi ha condannato l’imputato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di sei mesi, oltre al pagamento delle spese processuali in favore dello Stato e di quelle di mantenimento in carcere durante la custodia cautelare.
Condannato a tre anni e mezzo Orlando Carella, colpevole di aver tentato di intimidire la testimone chiave.
La difesa di Carvone ricorrerà in Appello. Il processo di secondo grado si svolgerà a Lecce nell’inverno prossimo.