
di Marina Poci per il7 Magazine
Bilanci e propositi, resoconti e speranze, analisi scientifiche che si mescolano a considerazioni umane: Massimo Calò (U.O.C. Anestesia e Rianimazione), Salvatore Minniti (U.O.C. Malattie Infettive) e Eugenio Sabato (U.O.C. Pneumologia), i primari dei tre reparti più coinvolti nell’emergenza sanitaria, raccontano l’anno appena trascorso all’ospedale “Antonio Perrino” di Brindisi, descrivono l’attuale quadro delle rispettive unità operative e provano a immaginare i futuri scenari della pandemia da Covid-19.
Qual è la situazione attuale nei vostri reparti?
Sabato: “Al momento abbiamo dodici pazienti ricoverati, su ventotto posti totali (diciotto posti letto di terapia sub-intensiva respiratoria e dieci di degenza ordinaria)”.
Calò: “In questo momento non abbiamo la rianimazione Covid attiva: da quando abbiamo chiuso il reparto, nel mese di luglio, c’è stata la necessità di intubare e assistere meccanicamente soltanto quattro pazienti, che abbiamo prontamente trasferito al DEA di Lecce. L’abbiamo fatto per cercare di ottimizzare le risorse, perché non avrebbe avuto senso tenere aperte tante rianimazioni in presenza di così pochi pazienti, visto che avremmo sottratto risorse alla gestione dei pazienti no Covid. Trasferire a Lecce i nostri pazienti che necessitavano di cure intensive ci ha permesso di mantenere attivi i sedici posti di rianimazione del Perrino, nonché di mantenere completamente aperto l’intero blocco operatorio, evitando di rinviare gli interventi in elezione. Seguiamo comunque quotidianamente i ricoverati in Malattie Infettive e in Pneumologia e li trattiamo personalmente ogni qual volta sia necessario passare dalla ventilazione non invasiva a quella meccanica”.
Minniti: “Al momento quasi tutti i posti per patologie legate al virus sono occupati: abbiamo sette ricoverati su otto posti disponibili nell’area Covid. Nell’ultima settimana stiamo ricoverando regolarmente almeno un paziente al giorno, cosa che non succedeva da un bel po’ di mesi”.
In Malattie Infettive, quindi, se non è saturazione, poco ci manca.
Minniti: “Purtroppo è così. Ho l’impressione che siamo all’inizio di una ulteriore onda pandemica che dobbiamo gestire con il massimo impegno, riadeguando il nostro modo di lavorare, in particolare i turni e gli spazi, per far fronte nel modo migliore possibile ai nuovi contagi. Non possiamo negare di essere stanchi, ma impiegheremo tutte le nostre forze, come abbiamo fatto sino ad ora, nella consapevolezza che il vaccino è un’arma in più di cui possiamo disporre per combattere la malattia grave”.
Che tipo di pazienti state ricoverando? Possiamo correttamente parlare di pandemia dei non vaccinati o pandemia dei vaccinati da più di sei mesi?
Minniti: “Quello che gli studi ci dicono riguardo all’efficacia dei vaccini corrisponde a quanto noi stiamo osservando nei reparti. I pazienti non vaccinati vanno incontro a una sintomatologia più importante e preoccupante. Fra i vaccinati, invece, quelli che soffrono maggiormente sono coloro che hanno delle fragilità legate ad un’età avanzata (in genere più di settantacinque anni) oppure a comorbilità di una certa gravità. Anche tra i vaccinati ricoverati abbiamo delle situazioni piuttosto impegnative, ma tutte connesse ad anzianità e altre patologie, nonché alla mancanza della terza dose, che – come ormai sappiamo – offre una protezione più alta anche ai soggetti più fragili”.
Sabato: “In proporzione rispetto al resto della popolazione vaccinata, nel nostro reparto il numero dei non vaccinati ricoverati è molto alto. Abbiamo poi una quota di ricoveri riferibili a persone che non hanno completato il ciclo: una donna che ha soltanto la prima dose, nonché una serie di pazienti che avevano prenotato la dose booster e purtroppo si sono infettati prima di poterla fare. Prevalentemente si tratta di persone di età superiore ai settantacinque anni, che quindi si sono immunizzate circa otto o nove mesi fa, per cui hanno subito un calo fisiologico della copertura anticorpale”.
In che condizioni sono questi pazienti?
Sabato: “In condizioni critiche. Hanno tutti insufficienza respiratoria grave, alcuni sono assistiti con il casco per la ventilazione non invasiva, altri sono intubati e pronati, cioè distesi a pancia in giù, perché questa posizione migliora l’ossigenazione. Normalmente necessitano di almeno venti giorni di degenza. La nostra preoccupazione maggiore riguarda proprio questo: se entrano tre pazienti al giorno, il reparto in una settimana è pieno e difficilmente siamo in grado di accogliere altre persone”.
È cambiata la cura per il Covid-19 da marzo 2020 ad oggi?
Minniti: “Certamente ci sono delle cure più codificate, nel senso che, mentre in passato ci affidavamo al confronto tra colleghi e alle esperienze degli altri centri, adesso abbiamo delle precise linee guida, stilate e aggiornate dall’AIFA, a cui ci atteniamo. Se mi sta chiedendo se abbiamo farmaci rivoluzionari capaci di cambiare il decorso della malattia, la risposta è no. Quei pochi farmaci che abbiamo, però, soprattutto se combinati, sono di grande aiuto. Se osserviamo l’attuale curva dei decessi, notiamo come è molto minore rispetto a quelle di novembre 2020 e marzo 2021. Il problema è che è aumentata molto la curva dei contagi e questo aumento comporta due ulteriori questioni molto importanti. Primo: il sistema assistenziale può seriamente andare in crisi, perché un sanitario che si contagia, per quanto in modo lieve o asintomatico, è necessariamente tenuto ad assentarsi dal lavoro, provocando problemi di organico. Secondo: aumentando i contagiati, aumentano in proporzione anche i pazienti fragili da ospedalizzare. Il che significa che i reparti potrebbero non reggere, anche perché le patologie non Covid non sono certamente scomparse e vanno comunque curate”.
Calò: “Per quello che riguarda le cure intensive, non ci sono novità. Abbiamo semplicemente trasferito alla cura del Covid le nostre conoscenze per la sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) causata da altri fattori. La terapia farmacologica, invece, si è molto affinata e questo ci ha consentito anche di comprendere come delle terapie che all’inizio sembravano promettenti siano in realtà poco efficaci. Mi riferisco, per esempio, al plasma iperimmune”.
Questo affinamento delle cure farmacologiche favorisce il lavoro del medico rianimatore e ne limita l’intervento? O non siamo ancora a questo punto?
Calò: “Certamente sì. Una corretta terapia farmacologica, iniziata al momento in cui il paziente si positivizza o al massimo non appena il paziente diventa sintomatico, è fondamentale perché in terapia intensiva finisca il minor numero possibile di pazienti. A questo proposito, va incentivato l’utilizzo precoce degli anticorpi monoclonali, visto che è stato dimostrato che limitano notevolmente la progressione della malattia”.
Da qualche parte si sostiene che Covid-19 si stia endemizzando: siamo già in una situazione di diffusione endemica o dobbiamo ancora parlare di pandemia?
Minniti: “Siamo ancora in pandemia. Aggiungo che, secondo me, siamo ancora in emergenza: la nuova variante Omicron ha scompaginato i precedenti schemi, anche perché i vaccini di cui disponiamo sono stati messi a punto per un virus diverso da quello che sta circolando in questo momento, per cui non sono efficaci come noi ci augureremmo. Tengo però a dire che, nonostante questo, la terza dose aumenta notevolmente la protezione anticorpale anche nei confronti di Omicron. Tuttavia, per parlare di endemia, dovrebbe verificarsi una situazione in cui il virus convive con la popolazione e soltanto rarissime volte provoca casi da ospedalizzare. Temo che siamo lontani da questa prospettiva”.
Sabato: “Per definirla endemia, dovremmo avere un plateau, una circolazione costante e benigna del virus. Al momento stiamo ancora vivendo dei picchi, anche se la vaccinazione ha portato sicuramente ad avere un numero minore di ricoverati: a dicembre dello scorso anno in reparto avevamo tutti i posti occupati ed erano vicini alla saturazione anche gli altri reparti, Rianimazione, Malattie Infettive, Pneumologia e Medicina Interna”.
Alcuni clinici, osservando queste prime settimane di diffusione di Omicron, sostengono che nei vaccinati sia poco più di un raffreddore: si tratta veramente di una variante meno letale di Delta e del ceppo originario o è semplicemente l’effetto dei vaccini che determina questa minore letalità?
Minniti: “Ho imparato a diffidare degli specialisti da talk show che periodicamente annunciano verità senza che vi siano ancora studi fondati. Noi impariamo strada facendo. La realtà, quella che ci raccontano i numeri, è che questa nuova variante ha una maggiore e più facile trasmissibilità e, in proporzione, può provocare un’impennata dei pazienti da trattare in ospedale. Se colpisce una persona sana, il danno è minimo. Diversamente, se colpisce un paziente oncologico, cardiopatico, diabetico o dializzato, le manifestazioni cliniche sono molto più importanti, soprattutto nei vaccinati con soltanto due dosi. Essendo più trasmissibile, il rischio di colpire anche i più fragili è molto più alto”.
Calò: “Ritengo che la protezione che noi stiamo ricevendo per effetto della vaccinazione faccia sì che il Covid non sia aggressivo come, invece, era un anno fa. Non è il virus ad essere diventato più buono, è il nostro organismo, stimolato dai vaccini, ad offrire una risposta immunitaria più efficace. Nessuno di noi, credo, ha dimenticato la situazione di emergenza che abbiamo vissuto nel dicembre dell’anno scorso: grazie ai vaccini, siamo molto lontani da quei tempi drammatici”.
Sabato: “Mi rifaccio ai pochi studi che stanno circolando in questo momento: da una prima osservazione, sembrerebbe che Omicron colpisca più che altro i bronchi e meno il polmone profondo. È sicuramente più contagiosa, ma stiamo notando che provoca una sintomatologia simil-influenzale, piuttosto che quei casi di insufficienza respiratoria acuta a cui ci ha abituato la variante Delta. Però abbiamo bisogno di qualche settimana in più per capire se queste prime osservazioni saranno confermate”.
In che percentuale la variante Omicron è diffusa sul territorio provinciale?
Sabato: “Non lo sappiamo ancora. Stiamo notando una grande quantità di soggetti con sintomi molto lievi o addirittura asintomatici, il che rende complicata la diagnosi e favorisce la diffusione”.
Quotidianamente le cronache ci riportano notizie di pazienti no vax che rifiutano il ricovero o che addirittura rifiutano di sottoporsi alle cure, spesso rivolgendosi in modo aggressivo nei confronti dei sanitari: avete ricoverato pazienti di questo tipo e come li avete gestiti?
Minniti: “Sì, purtroppo. Nella nostra equipe ci siamo dati un codice di comportamento molto trasparente: non dobbiamo giudicare le scelte personali dei pazienti, siamo chiamati soltanto a dare assistenza. La necessità di vaccinarsi o meno per me è un argomento di conversazione quando sono al bar con gli amici, non quando sono in corsia con gli ammalati. È vero, però, che spesso subiamo delle offese molto pesanti assolutamente gratuite, soprattutto da qualche paziente che nega l’esistenza del virus e l’efficacia delle cure che prestiamo, oltre che del vaccino”.
Sabato: “Ci sono pazienti che sono poco complianti nei confronti delle terapie che somministriamo e si approcciano in modo poco gentile quando tentiamo di farli stare meglio. Sono soprattutto coloro che negano l’esistenza del virus e sono convinti che le cure che prestiamo loro li facciano peggiorare, invece che guarire. È complicato affrontarli, ma io cerco sempre di immedesimarmi nella loro condizione: il più delle volte gli scoppi di rabbia sono dettati dalla paura di non farcela, dalla difficoltà a comunicare con le famiglie, dal fatto che le nostre terapie sono particolarmente invasive e possono spaventare”.
Calò: “È capitato. Ma i pazienti sono tutti uguali per noi, indipendentemente dalla scelta di vaccinarsi o meno. Cerchiamo di convincerli che il nostro unico obiettivo è guarirli, non giudicarli. Li invitiamo ad affidarsi alle nostre cure e quasi sempre riusciamo a persuaderli”.
Presso l’ASL di Brindisi è presente un ambulatorio Long Covid: a distanza di quasi due anni dall’inizio della pandemia, che conclusioni possiamo trarre sugli effetti a lungo termine del virus sull’organismo di chi è colpito?
Sabato: “Dal maggio 2020 abbiamo visitato circa centocinquanta persone nei nostri ambulatori, ai cui afferiscono soprattutto pazienti con patologie respiratorie (il 60% dei quali sono uomini). Sono tutti pazienti che in precedenza sono stati ricoverati nei nostri reparti per insufficienza respiratoria acuta, forte desaturazione, polmoniti gravi. Abbiamo notato che hanno in comune un indice di massa corporea più alto della media, quindi sono in sovrappeso, quando non proprio obesi. Hanno un’età media compresa tra i sessanta e i settant’anni e provengono in prevalenza da Brindisi, Francavilla, San Vito, San Pietro, Carovigno e Mesagne. A sei mesi dalla negativizzazione, nella maggior parte dei casi (circa l’80%) queste persone presentano debolezza, malessere generale dopo l’esercizio fisico, a volte anche dopo una semplice passeggiata, difficoltà a muoversi con la velocità cui erano abituati. Un altro sintomo, del quale si parla poco, è l’annebbiamento mentale (confusione, facile perdita della concentrazione, difficoltà a memorizzare, insonnia): un buon 50% dei pazienti, anche a distanza di molto tempo dalla guarigione, deve fare i conti con questo risvolto che condiziona la vita di relazione e quella lavorativa. In alcuni residuano tachicardia e senso di costrizione toracica”.
Che anno è stato il 2021 nei vostri reparti? Come lo definireste?
Minniti: “Difficilissimo. La cosa che più ci ha amareggiato è la percezione di essere stati lasciati da soli. Sono finiti i tempi dei sanitari visti come eroi. Adesso spesso la gente non si rende conto dei sacrifici estremi che quotidianamente facciamo per mantenere in piedi il sistema. Però ce ne siamo fatta una ragione, non vogliamo medaglie. Ci basta la soddisfazione che proviamo tutte le volte che riusciamo a dimettere i pazienti che ci vengono affidati, nonché la consapevolezza che – rispetto ai primi mesi del 2020 – conosciamo meglio il virus e possiamo offrire un’assistenza migliore”.
Sabato: “Orribile, non posso definirlo diversamente. Non si parla mai abbastanza di burnout degli operatori sanitari, ma la verità è che siamo al limite delle forze. I nostri infermieri stanno facendo un lavoro straordinario da marzo 2020, con turni massacranti e la costante paura di contagiarsi e portare a casa il virus. Inoltre, essendo così assorbiti dal Covid, non riusciamo più a seguire le patologie ordinarie (le neoplasie polmomari, l’asma, la broncopneumopatia cronica ostruttiva) che sono curati dai colleghi di Medicina Interna o addirittura da altre strutture: è veramente frustrante”.
Calò: “Estremamente complicato, ma comunque più sereno rispetto al 2020. Ai primi di dicembre dell’anno scorso lavoravamo con molto timore: nessuno di noi si sentiva al sicuro e, nonostante l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, avevamo la sensazione di essere vulnerabili. Se qualcuno ci avesse detto che da lì a qualche settimana sarebbe arrivato un vaccino disponibile per tutti, non ci avremmo creduto. Così come, se ci avessero detto che ci sarebbe stata gente capace di rifiutare il vaccino, in quei giorni di tale emergenza non lo avremmo ritenuto possibile. Quando le prime dosi sono state disponibili, siamo andati tutti di corsa a vaccinarci e da quel momento, nonostante la curva pandemica abbia avuto diversi picchi, abbiamo lavorato con una maggiore serenità. Oggi raccontiamo una storia diversa: nonostante il numero dei contagi cresca a dismisura, il numero dei ricoverati è sotto controllo”.
Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi?
Sabato: “Non faccio previsioni. Mi auguro soltanto un’estate prossima in cui poter finalmente dire che la patologia da SARS-CoV-2 è, se non passata, almeno controllata: ho fiducia nei vaccini, che saranno aggiornati alle varianti, e nei farmaci, che diventeranno sempre più mirati”.
Minniti: “Un’impennata dei contagi a cui, spero, non segua un’impennata di ricoveri”.
Calò: “Spero soltanto che la gente continui a vaccinarsi: i numeri parlano chiaro e proteggerci a vicenda è l’unica strada per uscire dalla pandemia”.