
di GIANMARCO DI NAPOLI per il7 Magazine
I fantasmi di un passato sanguinario aleggiano intorno a ciò che resta della Sacra corona unita mesagnese: vecchi boss che si scoprono ormai obsoleti dopo trent’anni di galera e annaspano alla ricerca del reinserimento, non nella società civile ma in quella criminale, scoprendo che essa è profondamente cambiata. Non perché manchino i malavitosi, ma perché è mutato il tessuto sociale nel quale un tempo erano endemicamente inseriti e che oggi li ha marginalizzati. E perché la presenza dello Stato oggi è dura, massiccia e incazzata. E ogni tentativo di ripresa viene stroncato sul nascere.
Il 15 settembre 2000 viene ucciso a San Vito dei Normanni Eugenio Carbone, uno degli ultimi boss mesagnesi ancora liberi, fedelissimo di Antonio Vitale, il “Marocchino”. Così era stata archiviata l’inchiesta sull’omicidio di Marcella Di Levrano, uccisa dalla Sacra corona unita perché divenuta confidente della polizia. Carbone, secondo sei collaboratori di giustizia, era stato quello che materialmente aveva compiuto quel delitto, lapidando la giovane donna nel Bosco dei Lucci, tra Mesagne e Brindisi.
Alle 4 del mattino, il fratello Roberto Carbone, 52 anni, che è di stazza imponente, scherza con i carabinieri che lo stanno facendo salire sul sedile posteriore dell’auto che lo porterà in carcere: “Sicuro che ci sto qua dietro?”, chiede ai militari. Per un’ora la sua abitazione in via Borgo Antico, nel cuore di Mesagne, è stata passata al setaccio dai carabinieri della compagnia di San Vito dei Normanni e dai “cacciatori” dello squadrone Puglia, con l’ausilio dei cani antidroga. In quelle stesse ore, altri militari, altri cani, altri lampeggianti accesi nel cuore della notte davanti a casa di Luigi Carbone, figlio 24enne di Eugenio. Lui non andrà in carcere, resterà ai domiciliari.
Altre nove abitazioni, in quelle stesse ore, vengono perquisite dai carabinieri: molte a Mesagne, una a Brindisi e Ostuni, due a San Pietro Vernotico. L’inchiesta ipotizza l’esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di stupefacenti. Non mafia, dunque, ma il nome della Sacra corona aleggia come uno spettro ovunque nelle pieghe dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del Tribunale di Lecce, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia.
I padri fondatori della Scu, ai tempi dei primi maxiprocessi, lo sbandieravano con orgoglio: “Noi quella merda non la vendiamo”. Lo spaccio della droga non era consentito, e tantomeno assumerla. Ma quest’ultima regola veniva rispettata un po’ meno perché i gruppi di fuoco, quelli spediti a compiere mattanze, erano strafatti di cocaina prima di imbracciare le lupare caricate a pallettoni. All’epoca alla Sacra corona non serviva fare affari con la droga: il business vero era il contrabbando di sigarette che l’organizzazione aveva fagocitato assoggettando le vecchie squadre. E poi c’erano le estorsioni, le rapine e l’usura. No, la droga non serviva.
Adesso, in tempi di magra, i princìpi sono passati in secondo piano. Bisogna sopravvivere. E la cosa più semplice, per un gruppo criminale, è organizzarsi per fare soldi facili con la droga, mettendo su una batteria di spacciatori, sfruttando una rete criminale ben consolidata e soprattutto in cui non ci sono più, come un tempo, regole territoriali da rispettare. La droga ha poi un vantaggio: a differenza di tutte le altre attività criminali, i destinatari dei traffici sono anche complici, perché i tossici sono giù vittime di se stessi. E di certo non denunciano chi quella roba gliela vende.
La droga, quasi sempre marijuana e hascisc e in quantità industriali, arriva seguendo le stesse rotte e con gli stessi sistemi del contrabbando di sigarette: su motoscafi provenienti dall’Albania. L’organizzazione smantellata dai carabinieri di San Vito dei Normanni (coordinati dal capitano Antonio Corvino e dal tenente Alberto Bruno) era strutturata in maniera molto pragmatica: Roberto Carbone ne sarebbe stato il capo, ma anche colui il quale in prima persona si occupava dell’approvvigionamento, curando i rapporti con i fornitori. Il suo braccio destro era Gianluca Zito, che aveva le funzioni di broker per le forniture e di coordinamento nella banda. Leonardo Bacile ne era il corriere, quello che eseguiva i trasferimenti di grossi quantitativi di droga ad acquirenti all’ingrosso, ma che gestiva anche il reperimento dei nuovi clienti e il recupero dei crediti relativi al narcotraffico ceduto in conto-vendita. Andrea Bianco, spacciatore e basista, forniva supporto logistico in qualità di gestore del bar Rossonero, una delle basi operative dell’associazione. Giovanni Carbone (altro fratello di Eugenio), basista, provvedeva alla custodia della droga. Il nipote Luigi, oltre alla intermediazione nella vendita dello stupefacente, si occupava dell’approvvigionamento, insieme allo zio Roberto, di grosse partite di marijuana. Mario Chirico, quale fornitore di marijuana, assicurava la continua disponibilità della droga. Mirco Contessa e Cosimo Ribezzi, basisti, gestivano la seconda base operativa della banda, il circolo privato Margot. Luigi Di Dio, basista, era incaricato di nascondere la droga. Amleto Livieri ed Eddi Scarparo, entrambi broker, erano incaricati di piazzare grossi quantitativi di sostanze stupefacenti nelle piazza venete, in particolare nelle province di Vicenza e Rovigo. Valentina Soliberto si occupava del recupero dei crediti e di intermediazione nella vendita di grosse partite di droga. Fernando Bruno, Luigi Campana, Luca Chirico, Fabio Ferruccio, Antonio Muscogiuri, Michael Sanfedino e Simone Tondo si occupavano dello spaccio al minuto.
Cinque componenti della banda sono finiti in carcere: Roberto Carbone, Leonardo Bacile, Mario Chirico, Michael Sanfedino e Gianluca Zito. Altri sei ai domiciliari: Luigi Carbone, Luca Chirico, Luigi Di Dio, Fabio Ferruccio, Valentina Soliberto e Simone Tondo.
Tutti gli altri (30 in tutto) sono indagati a vario titolo per associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di sostanza stupefacente.
“L’elevatissimo allarme sociale ricollegato al delitto associativo, il ruolo continuativamente svolo nel sodalizio di appartenenza e la più che negativa personalità evincibile dalla grave condotta rendono configurabili in massimo grado le esigenze cautelari”, scrive nell’ordinanza di custodia il gip Michele Toriello.
La modalità con cui l’indagine si è innescata è la sintesi perfetta di come l’arroganza criminale da queste parti non sia più tollerata: l’incendio dell’auto di un maresciallo dei carabinieri, avvenuto davanti alla sua abitazione, a Mesagne. Il sottufficiale aveva “osato” multare per violazione del codice della strada un noto pregiudicato del posto. E così, come avveniva spesso in passato, questa mancanza di «rispetto» nei confronti di criminali quotati era stata immediatamente vendicata. Ma i tempi, si diceva, sono cambiati. E proprio da quelle indagini nate dall’attentato, a sua volta innescato da una banale multa, è stata scoperta l’esistenza di un’organizzazione che proprio a Mesagne aveva posto le sue radici e che stoccava chili di droga. Non quella pesante però e non per questioni di principio o morali: Roberto Carbone e i suoi sanno bene che le pene se si viene beccati a vendere marijuana o hascisc sono più leggere rispetto a quelle previste per i trafficanti di cocaina ed eroina.
All’inizio si diceva di come Mesagne sia cambiata rispetto a trent’anni fa e come un boss che quando venne arrestato, alla fine degli anni Ottanta, era una sorta di intoccabile nonostante la giovane età, quando è tornato in città dopo tre decenni passati dietro la sbarre ha tentato di riprendersi quel ruolo, ma ha trovato – senza rendersene conto – tutto profondamente cambiato.
Giovanni Donatiello, detto “Cinque lire”, 61 anni, uno dei padri fondatori della Sacra corona, è tornato in carcere da qualche mese, dopo meno di un anno di libertà, perché si è scoperto che aveva tentato di rimettersi in sella. In questa inchiesta risulta indagato per aver più volte violato la sorveglianza speciale che avrebbe dovuto rispettare per cinque anni, in particolare non frequentando altri pregiudicati. I carabinieri hanno accertato che aveva incontrato più volte componenti dell’organizzazione di trafficanti sia presso l’autocarrozzeria dove aveva trovato lavoro che all’interno del circolo Margot di Mesagne, frequentato da pregiudicati del posto.
L’immagine di Donatiello, non solo un boss storico, ma anche personaggio ancora carismatico negli ambienti della malavita, che tenta invano di riaccreditarsi e di assumere un ruolo e che per questo torna in carcere, forse per sempre (era stato condannato all’ergastolo per omicidio e aveva ottenuto la libertà dopo trent’anni), è l’emblema di come i tempi siano cambiati. Ma anche la prova precisa che non si può ancora abbassare la guardia. Sarebbe un errore gravissimo.