Marcella, lapidata in quel bosco

Marcella guardò negli occhi il suo assassino. Aveva capito che era finita. Eppure mantenne lo sguardo dritto, gli occhi nello stesso momento fieri e imploranti: “Non fa niente per me, ma ti prego, dopo pensa alla mia bambina”. Queste parole, questi sguardi, il racconto degli ultimi istanti di vita di Marcella Di Levrano sono stati così terribile che persino la malavita li ha tramandati a bassa voce, come una vergogna, come uno degli atti più truci e vigliacchi della storia della Sacra corona unita.
Non si è mai saputo chi, il 5 aprile 1990, nel bosco dei Lucci, fracassò la testa a colpi di pietra di questa ragazza di 26 anni che aveva deciso di uscire dalla droga ma che temevano potesse raccontare tutto, smontando pezzo per pezzo le ambizioni della mafia mesagnese. Di quel delitto neanche i pentiti hanno fornito indicazioni utili a incastrare l’assassino, anche se un nome è circolato con insistenza. Ma forse non sarà mai condannato. L’uomo che ha raccontato di quelle ultime parole e della promessa di aiutare la bimba che aveva reso orfana.
Marcella Di Levrano era la seconda di tre sorelle. La madre, Marisa Fiorani, nel 1968, aveva scelto di abbandonare il marito violento e di portare con sé a Mesagne le tre bambine facendo di tutto per farle crescere nel miglior modo possibile. Marcella alle scuole medie era tra le prime della classe. Si iscrisse al Magistrale e al secondo anno una sera non tornò a casa. La ritrovarono due giorni dopo, completamente fatta di eroina.
Qualche tempo prima aveva iniziato a bazzicare in ritrovi alternativi in cui si “fumava” liberamente, poi la dipendenza dall’eroina che in quegli anni era il passaggio quasi scontato, con biglietto di sola andata. Marcella era intelligente e bella. Entrò subito negli ambienti malavitosi che le garantivano la dose di eroina quotidiana, nel giro degli ambiziosi giovani boss di una Sacra corona che muoveva i suoi primi, sanguinosi passi.
E ne iniziò a conoscere i segreti.
Marcella aveva l’abitudine di annotare tutto ciò che le accadeva in una agendina alla quale, sin dai tempi della scuola, confidava tutti i suoi pensieri, ma anche gli avvenimenti della giornata. Diventò un diario meticoloso che raccontava storie di mafia e di droga.
La nascita della sua bambina, venuta al mondo dopo una breve relazione, e alla quale voleva tutto il bene del mondo, la riportò a ragionare, a rendersi conto che se voleva assicurarle un futuro doveva smettere di drogarsi, uscire da quel mondo nel quale era rimasta prigioniera.
Avrebbe voluto raccontare tutto, liberarsi, far arrestare gli spacciatori di droga e quelli che li rifornivano.
Non l’avrebbero uccisa, forse, se non ci fosse stata quell’agendina. Ma temevano che finisse nelle mani degli sbirri.
E così la Sacra corona decise di farla finita nel modo più barbaro: lapidandola in un bosco di contrada Lucci, alla periferia di Brindisi. Colpi di pietro sul viso, perché questa era la morte orrenda che veniva riservata agli infami.
Quando i primi pentiti iniziarono a raccontare gli omicidi della Scu avvenuti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio di quelli Novanta, più volte si tentò di smascherare il più feroce degli assassini, quello che aveva straziato quella ragazza di 26 anni. Ma nessuno riuscì a a incastrarlo.
La figlia, che oggi ha la stessa età della madre quando fu uccisa, è stata adottata da una delle zie. Non sappiamo se sa. Ma se sapesse, sarebbe fiera di quella madre che l’amò sino all’ultimo istante della sua vita e che morì per regalarle un futuro migliore.