Spazi riorganizzati, percorsi più rapidi e nuovi medici: una rivoluzione per un reparto in agonia da anni

Nuova modulazione planimetrica degli spazi; aggiornamento dei percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali già esistenti o elaborazione di nuovi, qualora non presenti; acquisizione di nuove professionalità con competenze specifiche nell’ambito delle urgenze/emergenze e continuo aggiornamento formativo del personale; potenziamento dei percorsi sul dolore toracico e sulla violenza di genere; umanizzazione delle cure con possibilità, compatibilmente con l’urgenza rilevata, di interagire telefonicamente con i parenti ai quali non è più consentito come una volta di sostare in reparto accanto ai pazienti: sono questi gli ingredienti di quella che potremmo battezzare “cura Marcone”, dal nome del nuovo primario del Pronto Soccorso dell’ospedale Perrino di Brindisi, Vincenzo Marcone, da poche settimane insediatosi nel ruolo che, siamo pronti a scommettere, nessun collega gli invidia.
Proveniente dal Pronto soccorso dell’ospedale regionale Umberto Parini di Aosta (nel quale faceva parte, in qualità di esperto nella gestione della patologia, della Syncope Unit, una unità multidisciplinare di eccellenza nel trattamento della sincope) e precedentemente da Pesaro e da Ivrea, Marcone ha annunciato una rivoluzione copernicana nella gestione del reparto con l’obiettivo di ottimizzarne le prestazioni, migliorare la presa in carico dei pazienti e, di conseguenza, ridurre i tempi di attesa, vero e proprio calvario di quanti sono obbligati ad accedere al Pronto Soccorso dell’ospedale brindisino.
Che situazione ha trovato, appena arrivato all’ospedale Perrino? Quali le criticità da affrontare più velocemente?
“Ci sono diverse criticità sulle quali intervenire, ma credo che il problema da risolvere per primo sia l’estrema carenza di medici. È una questione che interessa tutta l’Italia, probabilmente a causa di una cattiva programmazione, a livello nazionale, delle scuole di specializzazione. Sicuramente ci sono carenze in tutti i reparti, ma i pronto soccorso sono sempre quelli che soffrono maggiormente. Quando sono arrivato a Brindisi, per ogni turno c’erano soltanto due (soltanto a volte tre) medici, a far fronte a una media di circa centoquaranta accessi al giorno. Da qualche giorno, e sono molto felice di poter dare ai nostri pazienti la buona notizia, stiamo sperimentando soluzioni diverse, in particolare la presenza di un terzo medico nella fascia di maggiore affluenza (cioè dalle 10 alle 18). Devo dire che la scelta ha dato riscontro discreti, soprattutto per quanto riguarda i tempi di attesa dei codici con priorità non alta, quali il verde e il bianco. Con un medico in più, riusciamo con maggiore velocità a trattare e mandare nell’ambulatorio di competenza proprio i pazienti cosiddetti “fast track”. Vedremo come andrà nelle prossime settimane, tenuto conto che, con l’arrivo dei turisti, è possibile che si arrivi anche ad un incremento del 10-20% di accessi nelle 24 ore”.
Per una provincia di circa 400.000 abitanti, che in estate arriva a registrare anche il doppio delle presenze, sembra un dato accettabile.
“Quell’unità in più sicuramente ci aiuta a gestire meglio le cose anche se, in realtà, siamo ancora fermi ad 1/3 dell’organico medico previsto. Peraltro, a seguito di concorso, arriverà tra poco un urgentista, grazie al quale avremo in reparto proprio la figura accademicamente formata per gestire le emergenze. Poi ne arriverà un altro a settembre”.
Sembra di capire che la formazione è una delle questioni a cui tiene di più.
“È fondamentale, soprattutto in un reparto come il nostro, nel quale le decisioni vanno prese rapidamente. Io sono specializzato in Pneumologia e mi interesso soprattutto del trattamento dell’insufficienza respiratoria in emergenza (nell’ospedale nel quale lavoravo precedentemente ero, infatti, il referente per questa patologia). Proprio in questi giorni io stesso sto tenendo un corso sull’argomento e sono molto soddisfatto della risposta del reparto. Una formazione accurata ci permette una maggiore tranquillità non soltanto nel curare il paziente (chiedendo le consulenze e gli esami strumentali più appropriati), ma anche nel dimetterlo, rinviandolo alle cure domiciliari.”
Su cos’altro state intervenendo?
“Sono arrivato in piena pandemia e ho dovuto affrontare immediatamente il serio problema della temporanea assenza di spazi per l’osservazione del paziente in attesa di ricovero. In questo momento stiamo studiando con la direzione una nuova organizzazione planimetrica del pronto soccorso, che aumenti lo spazio per il trattamento dei codici rosso e giallo. Poi c’è anche la struttura esterna, attrezzatissima con monitor e dotata di pressione negativa, che ci darà la possibilità di assistere i pazienti in maniera più confortevole”.
Nelle sue prime dichiarazioni ha parlato anche di riconsiderare alcuni diversi percorsi di accesso, per speciali categorie di pazienti e per particolari patologie.
“Ci sono dei percorsi già ben strutturati e altri che stiamo approfondendo e aggiornando per renderli più funzionali alle esigenze dei pazienti, coinvolgendo le giuste figure. Mi riferisco, per esempio, ai percorsi “violenza di genere” e a quello “dolore toracico” per il pronto soccorso e l’osservazione breve intensiva, che nulla vuole togliere al percorso “dolore toracico” già esistente, ma certamente lo completa. D’accordo con alcuni primari, stiamo definendo percorsi diagnostici terapeutici assistenziali, cosiddetti PDTA, per ottimizzare la gestione dei ricoveri”.
Molti medici e scienziati (specie quelli che si occupano di tutela dell’ambiente) ritengono che quella da Covid-19 non sarà l’ultima pandemia nel futuro dell’umanità: ritiene che in quest’ottica sia possibile (o necessario, magari) mantenere negli accessi ai pronto soccorso, anche negli anni a venire, la distinzione tra percorsi presunti infettivi e percorsi ordinari?
“In questo momento io non sento di poter dare una risposta in termini definitivi a questa domanda. La situazione non si è ancora stabilizzata, le strutture Covid sono ancora transitorie, perciò ipotizzare il futuro di alcuni reparti è prematuro. Da primario, mi preoccupa di più quello che accadrà al mio reparto tra un mese e non quello che potrà accadere tra due o tre anni”.
Ha fatto riferimento alla figura del medico urgentista: chi è e come si forma?
“Da qualche anno abbiamo una scuola di formazione apposita per questa figura professionale e, da medico di pronto soccorso, non posso che essere felice di questa istituzionalizzazione. L’urgentista è fondamentalmente uno specialista addestrato a riconoscere le urgenze, anche se non sempre a trattarle. Ha una altissima capacità diagnostica, perché in tempi brevissimi deve chiedere i giusti esami e le giuste consulenze ed è abituato ad interagire con gli specialisti giusti per una migliore gestione del paziente. Una delle caratteristiche dell’urgentista è la sua capacità di utilizzare al meglio gli strumenti tecnologici di ultima generazione, primo tra tutti l’ecografo, che io definisco il migliore amico dell’urgentista”.
Che tipi di competenze ha?
“È un medico che ha appreso durante il corso degli studi come saper riconoscere e gestire le varie tipologie di urgenze. Non si sovrappone allo specialista, ma lo coadiuva in una prima fase della diagnosi e del trattamento, stabilizzando il paziente. È anche bene chiarire che quella dell’urgentista è una figura diversa da quella del rianimatore-anestesista, con il quale collabora, ma che non vuole sostituire”.
Secondo le ultime statistiche, le due specializzazioni mediche meno ambite sono medicina d’urgenza e anestesia e rianimazione. Come spiega questo dato?
“È un dato su cui noi medici discutiamo molto. Parlando con altri primari, è venuto fuori che alcuni colleghi, dopo anni di pronto soccorso, hanno addirittura virato verso reparti medici come geriatria o medicina interna. Purtroppo è un’inversione di rotta che registriamo da molti anni. Si tratta di specialità che comportano un lavoro logorante, non tutti sono disposti ad accettare una vita così stressante. Poi sicuramente ci sono altre motivazioni”.
Qualcuno, un po’ maliziosamente, giustifica questa scelta con la impossibilità di esercitare la professione privata e, quindi, di avere un’entrata economica ulteriore…
“Non posso negare che questo sia uno dei motivi. Ma ne aggiungo un terzo, da non sottovalutare: il contenzioso legale che coinvolge i medici è prevalentemente legato agli interventi in urgenza ed emergenza e alla gestione dei casi acuti. Siamo i medici più esposti, non tutti riescono ad affrontare questa pressione. È una specialità particolare”.
Eppure Vincenzo Marcone da San Giovanni Rotondo l’ha scelta e, tra 118 e pronto soccorso, continua a praticarla: perché?
“È quello che volevo fare da ragazzino, non riesco a pensare di essere un medico diverso da quello che sono diventato e di lavorare in reparto. La positiva scarica di adrenalina che si avverte, il gusto di sentirsi utile, la mente che deve cercare una soluzione in pochissimo tempo, il credere profondamente in questa professione: senza nessuna retorica, era il mio sogno”.
Qual è l’intervento più pericoloso e quale il più doloroso con cui si è misurato?
“Ci sono molti interventi che potrei citare, ma ne scelgo due. Tanti anni fa, nel centro di Aosta, un tir entrò letteralmente in un condominio: sicuramente anche per noi soccorritori fu una giornata infernale. Il mio ricordo più doloroso, invece, riguarda certamente il primo soccorso prestato ad una donna che era stata sfregiata con l’acido dal suo compagno: una situazione che ho gestito dall’inizio alla fine e che mi ha turbato profondamente. Sono stato chiamato in reperibilità e ho trovato una ragazza il cui volto bellissimo era stato deturpato vigliaccamente dall’uomo che diceva di amarla. Non lo dimenticherò mai”.
Durante le fasi più acute della pandemia, invece?
“Ho avuto pazienti in grave insufficienza respiratoria, che sino a mezza giornata prima di arrendersi al virus mandavano tranquillamente messaggi con il cellulare o sorridevano ai parenti durante il trattamento di ventilazione assistita tramite cpap, mentre la saturazione scendeva incontrollabilmente. Noi sanitari ci guardavamo impotenti, perché molti di loro peggioravano rapidamente e gravemente, nonostante tutti i trattamenti”.
È notizia di questi giorni che in Francia sono state previste restrizioni per i non vaccinati contro il Covid-19: come valuta questi provvedimenti e cosa pensa, in particolare, sull’obbligo vaccinale per il personale sanitario?
“Credo che siano giuste le sanzioni disposte nei confronti di chi non si vaccina. Vogliamo far collassare gli ospedali? Vogliamo nuove chiusure generalizzate che metterebbero ancora più in crisi l’economia? Immagino che la risposta di tutti sia “no”. Il virus è aggressivo, noi dobbiamo esserlo di più: l’unico strumento che abbiamo è la vaccinazione, l’opzione più ragionevole e accettabile per tutti”.
Compiamo un esercizio di chiaroveggenza: come immagina il pronto soccorso dell’ospedale Perrino da qui a un anno?
“Pieno di medici giovani, adeguatamente formati e molto motivati, che scrivono articoli di medicina d’urgenza sulle riviste scientifiche per condividere la loro esperienza con i colleghi in Italia e all’estero. Un pronto soccorso dinamico, con una buona attrezzatura tecnologica e una serie di sale che ci permettano di differenziare le urgenze. Io ci credo: bisogna lavorare, credere nei cambiamenti e avere pazienza che i cambiamenti approntati facciano il loro corso”.