Una notte sul “Tintora”, peschereccio brindisino dedicato a una nonna

Tre giorni a terra e le reti in mare: l’equipaggio della «Tintora» può finalmente mollare gli ormeggi e salpare con l’infinita pazienza del pescatore. L’armatore Roberto Prudentino e i suoi pescatori Franco, Gino, Fabio e Nico, dopo l’ondata di maltempo sull’Adriatico, di mattina alle tre e mezzo attraversano il canale Pigonati, lasciandosi alle spalle il pittoresco «Villaggio Pescatori» e le «Sciabiche» che si riflettono sullo specchio d’acqua.
Il rumore e l’odore del motore acceso del peschereccio si sente costante in sottofondo, come il verso dei gabbiani che volano sopra le barche in cerca di pesce.

E’ una notte limpida, si distinguono nitidamente le Pleiadi nella costellazione del Toro, la prua punta in direzione Levante nel buio tutto intorno, come se non esistesse lo spazio e non ci fosse il tempo.
La «Tintora» è una delle sette motobarche autorizzate alla pesca nel porto di Brindisi, e la più grande con i suoi 14 metri e mezzo di lunghezza, che domina la banchina del Villaggio Pescatori quando attracca. Noi siamo a bordo per attività di pescaturismo. E per raccontare.
L’armatore Roberto Prudentino ha ereditato uno dei mestieri più antichi di Brindisi dal padre Antonio, che usciva in barca col nonno: i brindisini lo conoscevano come Premio «lungai». Era alto nonno Premio, e oltre a essere pescatore era anche barcaiolo.
Premio «lungai», classe 1890, accompagnava per mare, nelle prime ore della notte, gli operai che lavoravano a bordo delle navi all’Arsenale. Ed era in barca con alcuni di loro nel tragico bombardamento della Royal Air Force tra l’otto e il nove novembre del 1941.
L’armatore Roberto, oggi, conserva il primo libretto di imbarco del nonno datato 1912. E in coperta della «Tintora» è appesa la foto in bianco e nero del padre Antonio.

«Tintora» era il soprannome della nonna perché tingeva le reti da pesca e le vele delle barche: una donna forte come la roccia che ha cresciuto sette figli, tre femmine e quattro maschi.
Le donne della famiglia Prudentino, quando potevano e c’era bisogno, aiutavano la famiglia mantenendo viva la tradizione, nonostante le difficoltà, gli imprevisti e la fatica immensa.
I Prudentino si sono tramandati il mestiere del pescatore da padre in figlio, lavorando di notte, affrontando le intemperie, la pioggia, il vento, il freddo e il caldo, le mareggiate e la bonaccia. Sono cresciuti col mare alle spalle e non hanno potuto fare a meno di seguire le orme dei loro genitori che li hanno allevati vendendo il pesce.
Così Roberto, uscito in barca per la prima volta nel 1972, a otto anni, non vi è più sceso, a parte per gli studi che ha terminato al Nautico.

Traspare tranquillità dagli occhi color del mare di Roberto quando, alle prime luci dell’alba, arrivati davanti alle boe segnaletiche delle reti, ordina ai suoi pescatori con le salopette cerate gialle e arancioni, di tirare su le reti rimaste in acqua per tre giorni. Lunghissimi per il lavoro del pescatore che deve portare ogni giorno il pesce fresco sulle tavole delle famiglie e dei ristoranti.
Il freddo penetra sotto i vestiti e pizzica la pelle. Franco, Gino, Fabio e Nico sono delle sagome sulla prua tagliate dall’albeggiare che distingue la fine del mare dall’inizio del cielo roseo. Il peschereccio è immobile e dalla poppa si vedono in lontananza le lampare di chi come loro assiste ogni giorno allo spuntare del sole. La pazienza del pescatore forse non si può imparare, ed è così complessa come la rete da posta che la possiede solo l’animo di chi sa parlare alla vastità del mare e sa riconoscere i pericoli che nasconde. Una pazienza ricompensata quando il salparete ritira le reti rosso rubino con i primi astici e le prime aragoste di una lunga giornata di pesca.
La prima «tirata» è quella più importante, può segnare le sorti di un’intera giornata di lavoro.
Brillano gli occhi dell’armatore e dei suoi pescatori.

Franco è attento a non danneggiare gli astici e le aragoste negli ingranaggi del salparete. Gino, seduto a prua sul piccolo panchetto, asporta con delicatezza i crostacei impigliati nella rete. Il più giovane, Nico, sistema i galleggianti e i tramagli facendoseli passare tra le mani prima, e le braccia, dopo, come se fosse un giocoliere; Fabio mette in ghiaccio il pescato.
L’odore del mare all’improvviso diviene così forte da poterlo quasi toccare e i pescatori iniziano a scherzare tra l’acqua che zampilla ovunque e che luccica nel cielo ai raggi del timido sole.
Fatiche, sudore e un intenso lavoro di squadra si legge sulle loro mani callose, e sulla pelle ricoperta dal sale.
Il peschereccio «Tintora» dopo aver salpato le prime reti è pronta a calare le altre: hanno le maglie più strette e sono trasparenti per catturare altri tipi di preda. Il sole è alto, caldo da far dimenticare il freddo sulle mani della notte appena trascorsa, e i pescatori sono già a maniche corte.

L’armatore Roberto, che non è lo stereotipo del lupo di mare chiuso e taciturno, prima di un’altra grande fatica, chiacchiera e ride con i pescatori come se fosse a casa: in fondo il mare, il peschereccio sono davvero una seconda casa. Un luogo familiare dove si passa il tempo, si litiga e si gioisce. Dove si porta avanti una vita fatta più di fatiche che di soddisfazioni.
Qualcuno torna in coperta a versarsi il caffè ancora bollente nella tazzina; un altro prende il panino e una bottiglia di acqua, e tornano sulla prua: siedono uno accanto all’altro e osservano il mare blu che gli riempie gli occhi come se fosse la prima volta che lo scoprono cercandone la fine.
Lo fanno ogni giorno. Perché la profondità del mare è sempre avvolta nel mistero e ha una forza incomprensibile che affascina l’uomo.
Terminata la breve pausa, Franco siede sul bordo sinistro del peschereccio e fa scorrere tra le mani nude le reti da calare, Fabio e Nico controllano che non ci siano intoppi o nodi, Gino lava la prua con una pompa.
Portata a termine la fase della calata, la «Tintora» torna a recuperare le reti messe in acqua all’alba: si rimette in funzione il salparete sotto gli occhi vigili dell’armatore Roberto e del pescatore Franco.

Gino, Fabio e Nico ora sono impegnati a liberare dal tramaglio orate, cefali, scorfani, palamiti e ricciole: li dispongono con ordine nelle vasche bianche di polistirolo che arriveranno alla pescheria «L’Aragosta» dove lavora Ivano, il fratello dell’armatore Roberto.
La giornata di pesca è andata bene, anche se rispetto al passato qualcosa è cambiato.
Oltre ai vari problemi che devono affrontare i pescatori come la rottura delle reti, bottiglie di plastica impigliate che raccolgono nei sacchi di immondizia, la rovina di alcuni attrezzi del mestiere, nel mare brindisino è arrivato da qualche tempo un voracissimo pesce serra: ha denti affilatissimi ed è ghiotto di cefali, ma anche di altre specie.
Sono le ore 13 e il peschereccio «Tintora», tagliando il mare blu con nove nodi di media contro il libeccio, prosegue sulla rotta del ritorno con la soddisfazione di aver avuto un buon risultato.
Sulla banchina di via Lenio Flacco ad attendere il fratello Roberto e i suoi pescatori c’è il fratello Ivano Prudentino, che li aiuta a scaricare il pescato e portarlo sui banchi della pescheria di famiglia.
Poi la «Tintora» rientra a dominare la banchina del Villaggio Pescatori e l’armatore Roberto, i pescatori Franco, Gino, Fabio e Nico tornano a casa a riposare.

Domani la sveglia suona di nuovo alle due e mezzo.
Il mare fa venire in mente le notti stellate, le albe estive, i tramonti romantici e le vacanze nelle acque cristalline, ma mentre il resto di Brindisi dorme, c’è chi, nell’universo affascinante della notte, spinto da una grande e indescrivibile passione per le antiche tradizioni di famiglia, possiede un’invidiabile capacità di essere delicato al momento giusto e forte, anzi fortissimo quando è tempo di issare le reti.
E’ questa la poesia della vita di chi si muove al ritmo delle onde per portare sulle tavole dei ristoranti e sui banchi delle pescherie pesce fresco e di qualità.