A 30 anni diventò sindaca antiracket, poi in Parlamento prima dell’addio «Non mi riconosco nella politica di oggi»

Dicono che io mi sia ritirata a vita privata? Hanno ragione. Al di là di qualche incontro nelle scuole, a cui proprio non riesco a dire di no perché mi piace confrontarmi con i ragazzi, ormai la mia scelta è quella di vivere lontana dalla politica attiva”: la voce è pacata e cortese, ma il tono non ammette repliche.
Primo cittadino di San Vito dei Normanni all’inizio degli anni Novanta, Rosa Stanisci è una donna che, poco più che adolescente, già militava nel sindacato e si batteva per i diritti dei braccianti agricoli, che a soli 31 anni era conosciuta in tutta Italia come “sindaco antiracket” e che oggi, a 60 anni, dopo tre mandati da parlamentare nel centrosinistra, non ha alcuna difficoltà a definirsi “casalinga”: “non torno indietro, la mia è una scelta definitiva”, aggiunge ancora.
E dire che una come lei, che si è battuta in prima persona in lotte i cui effetti si riverberano anche in provvedimenti legislativi attuali, da offrire al territorio, anche soltanto in termini di esperienza, avrebbe ancora tanto.
Come esponente di spicco della CGIL, ad esempio, Rosa Stanisci si è resa protagonista di un approdo storicamente essenziale nella lotta al caporalato, la cosiddetta “autogestione delle donne”, per effetto della quale le braccianti, in virtù di contrattazione aziendale diretta dei sindacati con le imprese agricole, venivano assunte senza l’invadente filtro dei caporali, i quali prima, per avere procurato il lavoro, trattenevano un’importante somma dall’ingaggio. Inoltre, promuovendo la stipula di contratti con le società di trasporto pubblico del territorio, in quel periodo i sindacalisti sono riusciti a spezzare la scellerata spirale del controllo che i caporali esercitavano attraverso l’utilizzo dei pulmini in cui, per una cifra consistente detratta dalla paga, le donne viaggiavano verso il posto di lavoro stipate in condizioni igieniche e di sicurezza che definire precarie sarebbe generoso. Grazie a questo epocale intervento, è stato conseguito dalle donne il triplice risultato di ottenere una paga adeguata, di raggiungere i campi in sicurezza e di venire finalmente sottratte al potere vessatorio dei capoccia, che spesso si spingeva ben oltre il potere disciplinare che ogni datore di lavoro è legittimato ad esercitare nei confronti dei suoi dipendenti.
D’altra parte, come sindaca di San Vito dei Normanni nel periodo in cui nel paese si verificavano in media cinque attentati al mese, Rosa Stanisci ha fronteggiato senza indietreggiare la criminalità organizzata che vessava il tessuto produttivo del piccolo centro brindisino, facendosi promotrice di un’associazione antiracket ancora esistente.
Dopo una vita così impegnata e così esposta, dopo risultati straordinari raggiunti sul territorio in ambiti diversi, da che cosa deriva la scelta di ritirarsi?
“All’inizio è stata una scelta di obbedienza al partito. Credo che viga ancora la regola che dopo un certo numero di legislature bisogna farsi da parte e lasciare spazio ai nuovi. Avrei potuto, come tanti hanno fatto, chiedere di essere “smistata” in qualche altro settore pubblico, ma non è il mio modo di intendere la politica. E guardi che non sto esprimendo un giudizio, è giusto che chi matura delle competenze facendo politica attiva, poi possa essere chiamato a metterle a disposizione della comunità. Anzi, le confesso che all’inizio anche io ho pensato che qualcuno mi avrebbe chiamata per darmi la possibilità di essere ancora utile al territorio. Però non è successo e nel frattempo la politica ha preso una piega diversa in cui non mi sono più riconosciuta. A quel punto rinunciare ad apparire è stata una decisione quasi obbligata”.
Però lei si è ritirata non soltanto dalla vita politica e istituzionale in senso stretto, ma anche dalla vita pubblica più in generale. Non partecipa ad aventi, non prende posizione su questioni locali né nazionali: è un po’ più netta come scelta, è come se fosse la Mina della politica locale…
“Purtroppo ho il terribile difetto di compiere sempre scelte nette. O dentro, o fuori. Ho deciso per il fuori. Sicuramente è stato determinante il modo in cui la politica è cambiata. Per tanti anni ho fatto politica in modo talmente ideale, che certi giochi di potere non fanno presa su di me. Ogni tanto, anche se sempre più raramente, partecipo, a iniziative scolastiche che puntino a sensibilizzare i ragazzi alle lotte alle estorsioni e al caporalato, che ho sostenuto quando ero sindacalista, sindaco e parlamentare, ma niente di più. Continuo a sentirmi una cittadina impegnata, ma al di fuori dai contesti tradizionali.”.
Quando e come nasce la storia di impegno pubblico di Rosa Stanisci?
“Avevo circa 17 anni quando mi sono avvicinata al sindacato. Deve pensare che alla fine degli anni Settanta nel territorio brindisino si contavano circa 20.000 lavoratori agricoli, la massima parte dei quali operavano in condizioni non dignitose. Le donne, specialmente, erano sottoposte a trattamenti salariali ignobili ed erano soggette ad ogni genere di sopraffazione da parte dei caporali, che spesso erano legati alla criminalità organizzata e minacciavano le lavoratrici e le loro famiglie. Era impossibile non essere toccati da quelle storie di miseria. Con i colleghi sindacalisti e grazie al coraggio delle oltre 300 donne che si sono affidate a noi, abbiamo sviluppato iniziative significative in un’epoca in cui né nell’opinione pubblica, né nella classe politica c’era una sensibilità troppo diffusa rispetto alle problematiche che riguardavano i braccianti. Posso dire con orgoglio che le leggi contro il caporalato approvate negli ultimi anni sono il frutto di battaglie che vengono da lontano e alle quali io ho partecipato”.
In quegli stessi anni Teresa Bellanova conduceva le sue stesse battaglie nella camera del lavoro di Ceglie Messapica: con riferimento alla attuale proposta della ministra di regolarizzare i lavoratori agricoli in nero, qual è la sua posizione?
“Conosco personalmente la ministra Bellanova, abbiamo condiviso tante lotte sindacali e anche molte sofferenze. Ad esempio, non possiamo dimenticare il dolore per i tanti incidenti stradali che si verificavano nel tragitto verso il posto di lavoro, in cui sono anche morte delle braccianti, o per le tante donne costrette ad allontanarsi dalla Puglia, perché i caporali, non appena le sapevano impegnate dal punto di vista sindacale, si adoperavano per non farle più assumere. Perciò quella della Bellanova è una battaglia sacrosanta e non più rinviabile: se come politici non interveniamo per dare dignità umana ai più deboli, conviene che ci ritiriamo”.
Il passaggio dal sindacato al partito come è avvenuto?
“In modo molto naturale. Le camere del lavoro all’epoca erano laboratori di esperienze politiche, oltre che strettamente sindacali. Il salto è stato quasi automatico per me, come per tanti altri. Stavamo iniziando ad avere una certa risonanza a livello nazionale, venivamo invitati alle trasmissioni televisive, i giornali parlavano di noi, le lavoratrici e i lavoratori che condividevano le nostre iniziative diventavano sempre più numerosi. Ad un certo punto il PCI ha compreso che la battaglia, per avere risultati migliori e più duraturi, doveva essere spostata nelle sedi istituzionali e ha voluto che questa lotta entrasse nel patrimonio politico del partito. Io ero già iscritta alla FIGC (Federazione Italiana Giovani Comunisti), quindi già condividevo quegli ideali. Quando mi è stata fatta la proposta di entrare come funzionaria nel partito “dei grandi” è stato naturale accettare”.
La candidatura a sindaco quando è arrivata?
“Era il 1991 e a San Vito c’era stata una grave crisi politica. I dirigenti del PCI mi hanno chiesto di mettermi a disposizione. Pur essendo consigliere comunale, io non avevo nessuna esperienza amministrativa diretta. Tuttavia, sollecitata fortemente dai compagni di partito, ho accettato. Deve pensare che le strutture politiche all’epoca erano molto diverse: se il partito decideva che qualcuno era necessario in un determinato contesto, non era possibile sottrarsi. Il partito ha deciso che io ero pronta e così lo sono diventata”.
La lotta alle estorsioni è stata il tratto distintivo della sua esperienza di sindaco.
“Direi di sì. Mi aspettavo di dover affrontare problemi di natura amministrativa, mentre sono stata costretta a scontrarmi immediatamente con la piaga della criminalità organizzata. Come amministrazione comunale, abbiamo immediatamente compreso che non potevamo isolarci nella battaglia e abbiamo coinvolto gli operatori economici del territorio. Nello stesso periodo in provincia di Messina, a Capo D’Orlando, si combatteva la stessa lotta, guidata dall’imprenditore Tano Grasso, che aveva fondato la prima associazione antiracket e antiusura nata in Italia. Ho preso contatti con lui perché volevo portare quella esperienza nel mio paese. Così, in pochi mesi, è nata a San Vito dei Normanni la seconda associazione antiracket italiana, battezzata proprio da Tano Grasso.
Nonostante il successo conseguito nella lotta alla criminalità organizzata, lei non è stata rieletta per un secondo mandato. Come spiega il risultato delle elezioni successive? Non c’è stato l’appoggio del partito, la gente non ha compreso, lei stessa non ha ci ha creduto abbastanza o forse, tra caporalato e Scu, le sue lotte stavano diventando scomode?
“Quando si perde, si perde. Non ho mai cercato alibi e non ho mai voluto dare colpe ad altri. Credo che molto sia dipeso dalla mia natura. A quei tempi per me le cose erano tutte bianche o tutte nere. Questo è un pregio, perché ho affrontato ogni battaglia politica con tutta me stessa. Ma è stato un difetto nel momento in cui, da minoranza, non ho accettato alcune alleanze che potevano portarmi al 51%. Da molti è stato considerato un errore. Per me non lo è stato. Come donna che sino a quel momento si era spesa con tutte le sue forze in ogni esperienza che aveva vissuto, dovevo correre il rischio di perdere. E così è stato”.
Lei ha vissuto il passaggio dal PCI alle sigle successive: l’esperienza da parlamentare com’è stata in quel contesto?
“Diversa da quella amministrativa, ma altrettanto interessante. Naturalmente, dal punto di vista delle scelte, non si trattava soltanto di cambiare nome, ma soprattutto di adeguare gli strumenti politici alla società che stava cambiando. Io non sono mai stata contraria ai vari passaggi, anche se ho trovato un po’ forzate alcune decisioni. Però bisogna riconoscere ai dirigenti di allora un grande coraggio, perché non è per niente semplice per un partito con una struttura ideologica così rigida, quale era il partito comunista allora, adattarsi ai cambiamenti sociali. Sicuramente andava fatto, anche se, devo dirglielo con franchezza, io ho una grande nostalgia del partito comunista degli anni Settanta e Ottanta. Per tutta la mia generazione, è stato una seconda famiglia. Io sono cresciuta in quel contesto come donna, come cittadina e come politica: lo guardo con occhio critico per certi aspetti, ma è un’esperienza indimenticabile”.
Adesso, dopo questa operazione nostalgia che ha coinvolto il PCI, mi faccia capire bene: lei la tessera del PD ce l’ha?
“No… Non ce l’ho più da qualche anno. Però sia chiaro: resto sempre una che, quando deve votare, vota PD. Non ho condiviso alcune scelte e mi è sembrato giusto non rinnovare la tessera. Glielo confesso anche con un po’ di vergogna, perché nel tesseramento attivo io ci sono cresciuta. Solo che ad un certo punto era diventato difficile riconoscersi in quel partito e non rinnovare la tessera è stato il mio modo di protestare”.
Come valuta le recenti vicende legate all’aspetto fisico della giornalista Giovanna Botteri e al rientro in Italia della cooperante Silvia Romano: dagli anni Settanta ad ora parrebbe non essere cambiato molto, se le battaglie delle donne sono ancora queste.
“Sta parlando con una donna che negli anni Novanta a 30 anni era sindaca e che ha combattuto in prima persona tante battaglie a sostegno delle donne. All’epoca la mentalità era talmente conservatrice che, quando arrivavano telefonate dai vari ministeri, il funzionario di turno mi scambiava per la segretaria e si aspettava che gli passassi il primo cittadino. A me è stato rimproverato di tutto: di non avere la laurea, di non essere abbastanza elegante, di dimostrarmi poco disponibile alla mediazione. Certamente è vero che tante cose sono cambiate, ma, lo dico con dolore, le vicende che mi ha citato dimostrano che tutte noi paghiamo ancora il prezzo di essere donne e di dover giustificare, al contrario degli uomini, le nostre scelte. Proprio per questo non possiamo considerare chiusa la questione femminile: per troppo tempo ci hanno fatto credere che cambiando le vocali alla fine delle parole fosse tutto risolto. Ma io sono per la sostanza. Sino a che non modifichiamo l’approccio, la condizione della donna non cambierà”.
Che San Vito ha lasciato da sindaco e da parlamentare anche e che San Vito vive adesso da semplice cittadina?
“Sicuramente San Vito, come tanti centri vicini, è cresciuto molto. Non possiamo negare che si debba ancora lavorare moltissimo, anche se sono contenta che gli effetti della nostra battaglia per liberarla dalla cappa di criminalità continuano tutt’oggi”.
In queste settimane si ragiona molto degli effetti della pandemia sui cittadini e sulle istituzioni. Saremo peggiori? Saremo migliori? Lei come la pensa?
“Io non amo molto dare giudizi sugli eventi, soprattutto perché ancora non ne siamo fuori. La pandemia ci ha sottoposto ad una pressione psicologica fortissima e ci vorrà tempo per elaborare le conseguenze. C’è gente che ha perso amici e parenti, gente che ha perso il lavoro, ragazzi sprovvisti di mezzi che non hanno potuto continuare a studiare. Come si fa a parlare in termini di miglioramento? Adesso mi preoccupa molto la reazione che i piccoli centri del Mezzogiorno avranno una volta che tutte le attività produttive inizieranno a lavorare a pieno regime. Mi sarei aspettata dal Governo interventi più incisivi, modulati a seconda del contesto economico diverso, così come avevo sperato che la burocrazia si allentasse un po’. La diffusione del virus poteva essere un’occasione per risolvere alcuni problemi che ci portiamo dietro da anni, ma purtroppo abbiamo fallito”.