Alla riscoperta del Serrone: meraviglie e suggestioni tra terra e mare

L’ultimo fine settimana di settembre, complice un tempo veramente fantastico e condizioni meteomarine estremamente favorevoli, ho deciso di dedicarlo alla scoperta, anzi alla riscoperta, del Serrone, visitando per terra e per mare non già le zone più note dell’omonimo parco, vale a dire Punta Penne, con la sua bella Torre Costiera e le sue spiagge, o la zona della “Crocetta”, vale a dire quella che geograficamente è la Punta del Serrone ed al largo del quale furono recuperati un quarto di secolo addietro i famosi bronzi a cui è dedicata la principale sala del Museo di Brindisi, bensì quel tratto di mare e di costa posto a metà strada fra le punte dei due promontori appena citati.
Si tratta di circa un chilometro e mezzo di litorale ricco di spunti naturalistici e pregnante di storia e di memoria di quella che è stata l’importanza militare e strategica di Brindisi dall’Unità d’Italia alla fine del Secondo Conflitto Mondiale.
Dovendo programmare un serie di immersioni in posti meno conosciuti rispetto a quelli generalmente frequentati, come di consueto, ho preferito effettuare un sopralluogo ricognitivo il giorno prima, sia per rinfrescarmi la memoria, che per scegliere il punto di accesso al mare più semplice ed adatto per giungere senza troppa difficoltà e senza troppo dispendio di tempo, energie e, soprattutto, aria, lì dove il fondale degrada sotto i 15 metri e cioè, in quella zona del litorale, ad appena poche decine di metri di distanza dalla riva.
Parcheggio l’auto nei pressi della zona che ancora oggi si chiama il “Cavallino”, in memoria di un antico balocco, a forma, appunto di cavallino, che almeno mezzo secolo addietro fu issato su un palo proprio in corrispondenza dell’attuale ingresso sud del Parco del Serrone, ma che qualche ignoto manutentore, evidentemente non brindisino, all’incirca un paio di anni addietro, pensando che fosse un semplice rifiuto pensò di asportare e andare a gettare in qualche discarica; e davanti ai miei occhi appare proprio una vera e propria discarica, a bordo strada, proprio sotto un cartello che evidenzia inutilmente come la zona sia soggetta a videosorveglianza: mobili abbandonati e bustoni di plastica contenenti rifiuti di ogni genere dati, di recente, alle fiamme; ….cominciamo bene.
Percorso un tratto misto sabbia e scogli che costeggia il mare, giungo alla prima lunga passerella di legno, lunga un centinaio di metri, che porta comodamente davanti al promontorio della Crocetta.
Per chi non lo sapesse, più che di una croce, come sembra essere da lontano, specialmente per i naviganti, si tratta di quel che resta di un vecchio argano militare risalente alla fine dell’ottocento.
Trattandosi di un punto dove il fondale lo conosco a menadito, per averci fatto non meno di un centinaio di immersioni, vado decisamente avanti, camminando fra gli scogli ispidi che caratterizzano questo secondo tratto e i terrapieni che celano, da oltre un secolo, dalla vista delle “navi nemiche”, le vecchie casematte militari (costruzioni a prova di bomba dove erano depositate munizioni, artiglieria ed esplosivi ad usi bellici) e proseguo lambendo una zona di costa rocciosa molto bassa, a diretto contatto con il mare, su cui, tuttavia, a dimostrazione della forza e vitalità della natura anche nelle condizioni più impervie ed impossibili, sono presenti alcuni arbusti di Limonio Virgato, una pianta davvero incredibile, capace di sopportare sia il contatto con l’acqua salata che una aridità che si può prolungare anche per mesi, ma che non le impedisce di svilupparsi e fiorire. Sugli scogli più prossimi al mare, a distanza di una cinquantina di metri l’uno dall’altro, due begli Aironi, ormai di casa sul litorale nord di Brindisi fra la Conca e Punta Penne, che prendono il volo non appena, senza rendermene corpo, invado il loro territorio, per ritornare tranquillamente al loro posto, dopo un ampio giro, avendo constatato che io non ero lì per loro.
Passeggio fra gli scogli e l’inizio della Macchia Mediterranea, che caratterizza le zone più interne del Parco del Serrone, attraversando quello che la cartellonistica posta in loco definisce “Pascoli Inondati Mediterranei” chiarendo che si tratta di formazioni sub-costiere con aspetto di prateria – una vera e propria steppa la definirei io – generalmente dominata da giunchi o altre specie igrofile. In effetti, da quel poco che so di botanica, riesco a distinguere alcune piante di Giunco Marittimo ed altre di Giunco Pungente, oltre che una gran varietà di crassifolie.
Appena al largo, distante una trentina di metri dalla riva, si notano i resti di una grande struttura in cemento che, fino alla metà del secolo scorso, costituiva un molo dove era possibile l’attracco di navi, rigorosamente militari, di piccolo cabotaggio e mi segno mentalmente il punto in quale vale la pena dedicare a questa struttura semisommersa, una delle mie prossime immersioni.
Giungo alla seconda passerella in legno, lunga quasi il doppio della precedente, che fa quasi da spartiacque fra la scogliera ed i pascoli inondati mediterranei a lato mare e la bassa macchia mediterranea, caratteristica delle zone più aride ed inospitali del nostro litorale sul lato interno; decido di non percorrere la comoda passerella ma di attraversare questa “Gariga” (non è una parolaccia o una esclamazione, ma è la denominazione di questo genere di macchia) fino a giungere a quello che rappresenta il più bello ed intatto esempio di architettura difensiva militare dell’ottocento presente nel nostro territorio: la Batteria Menga, una sontuosa costruzione con pareti spesse parecchi metri ed armata con quattro bocche di fuoco puntate a difesa dell’ingresso del porto di Brindisi, protetta dal lato mare da un terrapieno “naturalizzato”, che la rendeva assolutamente invisibile alle navi nemiche.
Mentre cerco la inquadratura migliore per fotografarla, noto una sorta di obelisco, alto all’incirca tre metri che si erge dal suolo a mò di monumento, faccio mente locale su cosa può essere, dal momento che era di tutta evidenza che non fosse un reperto militare, somigliando di più ad un cippo funebre con una certa carica esoterica e mi viene alla mente un gustoso aneddoto che lo riguarda e ne svela la misteriosa origine.
Agli inizi del nuovo millennio, se non erro nell’autunno del 2001, sulle pagine dei principali quotidiani locali, e non solo, rimbalzò la notizia, destinata a sconcertare la cittadinanza, che in località Serrone, a due passi dall’abitato di Brindisi, si celebrassero messe nere e riti satanici di ogni genere.
Era accaduto che degli operai incaricati di effettuare dei lavori di bonifica su quei terreni attorno al citato obelisco, avessero scoperto degli altarini e tutta una serie di croci di legno conficcate nel terreno e scavando erano venute fuori una gran quantità di ossa interrate ed una scritta inneggiante a “Satana”, al che, spaventati, avevano avvisato i carabinieri che avevano prontamente sequestrato il sito ed aperto un fascicolo contro ignoti per chiarire la origine umana o animale delle ossa rinvenute; la notizia, ovviamente, aveva fatto subito il giro delle redazioni e, il giorno dopo, non essendo ancora diffuso il Web, era finita sui giornali.
E fu con una telefonata al Quotidiano che il famoso allevatore ed addestratore di cani, il comandante Ucci, fece chiarezza sull’episodio, evidenziando che quello che era stato considerato un sito satanista in realtà era il cimitero dei suoi cani e di quelli di alcuni suoi amici perché, in un periodo in cui ancora non si discuteva sulla opportunità di concedere un luogo di sepoltura apposito per i nostri amici a quattro zampe, lui fu un precursore e, mentre l’obelisco era il monumento funebre che aveva dedicato ad un suo Rottwailer, invece la scritta dedicata a satana era quella apposta sulla tomba del suo splendido Terranova, chiamato appunto così, che molti ricorderanno, come quell’imponente cagnone nero che il comandante Ucci portava sempre con sé anche sulla motoretta, una quarantina di anni addietro.
Sono contento che l’obelisco sia rimasto al suo posto anche dopo i lavori per la realizzazione del parco in quanto ha una ragion d’essere proprio come monumento dedicato alla memoria dei nostri amici animali scomparsi.
Immerso in questi pensieri, due ore sono già passate ed è quasi il tramonto per cui, non essendo il parco illuminato, faccio ritorno all’auto seguendo la strada litoranea, già pregustandomi l’immersione programmata per il giorno dopo.
L’appuntamento con gli amici è per le otto del mattino; ci caliamo in mare dopo aver percorso la prima passerella ed ancora un centinaio di metri sugli scogli in direzione delle casematte.
Già nei primi metri, dove il fondale è basso, dal momento che la zona, in quanto impervia per via degli scogli appuntiti e lontana dalla strada, non è assolutamente frequentata da bagnanti, le rocce sono coperte di vegetazione integra. Tantissimi, vivacissimi e variopinti pesciolini, incuriositi dalla nostra presenza, ci nuotano incontro. Davvero tante le stelle marine che con il loro rosso vivo rallegrano la vista e che, come è giusto che sia, nessuno si sogna di venire fin qui a raccogliere. Man mano che si procede in direzione del largo il costone roccioso degrada in profondità e quando siamo a -5 metri c’è un primo precipizio che porta a -10 dove costeggiamo una bella parete incrostata di coralligeno e si cominciano a vedere le prime Spugne Candelabro (Axinella Cannabini) di un bel colore giallo od arancio acceso e, tutt’attorno, nuvolette di vivaci castagnole nere e, quelle più giovani, ancora con la livrea blu elettrico sopra alle nostre teste; banchi immensi di Salpe che brucano e, ad un certo punto, i pescetti paiono impazziti quando giungono all’improvviso, materializzandosi dal blu del mare aperto, non meno di un centinaio di grosse ricciole attratte, in questo caso, dallo sbrilluccicare delle bollicine d’aria che escono dai nostri erogatori e scambiati, a distanza, per il pesce azzurro di cui sono golose: ci girano attorno un paio di volte e poi si allontanano a pancia vuota, risparmiando, per questa volta, anche i pescetti che avevano cercato rifugio a ridosso della parete rocciosa.
Procedendo verso sinistra e seguendo la lingua di sabbia che serpeggia fra i canyon rocciosi, giungiamo ad una profondità prossima ai -15 metri e, fra i ciuffi di Posidonia notiamo una bella Tonna Galea, una fra le conchiglie più grosse del mediterraneo, seminascosta e, poco più in là, un Vermocane intento a predare un Riccio; tornando verso la parete, un bel nudibranco appartenente alla famiglia dei Cromodoridi, con il suo bel ciuffo branchiale bene in mostra si concede al mio obiettivo.
E’ passata circa un’ora e l’aria comincia scarseggiare nella bombola, per cui cominciamo a fare ritorno verso il punto di partenza, giunti quasi in superficie, ad attenderci una bella e grossa Cassiopea, probabilmente la medusa più innocua del Mediterraneo, che gode della leggerezza della corrente e del tepore del sole che riscalda la superficie e che rende il suo colore quasi rosso.
Usciti dal mare, più che soddisfatti da quanto visto, ma già con l’intenzione di tornare al più presto per esplorare nuovi tratti sottomarini della parete rocciosa che dal Serrone giunge a Punta Penne, ci avviamo, attraversando la comoda passerella in legno al “Cavallino” dove ci attendono le nostre auto per fare ritorno a casa.