
Dove diavolo è questo Vicolo della Croce, stramaledetto idiota di Micheli” brontolò Fusco, mentre dava colpi sul navigatore sperando che si decidesse a indicare la strada giusta. “Una traversa di Via Lata” commentò Merlo, riuscendo finalmente a intravedere un lampeggiante sul bordo della strada. La targa all’incrocio indicava via De Bellis. Fusco spedì un’occhiata furiosa a Micheli che abbasso gli occhi. Da quando qualcuno gli aveva fatto perdere l’abitudine delle battute sarcastiche, con un pugno anonimo ma dalla buona mira, l’agente evitava quasi di parlare. Questo gli costava uno sforzo enorme, evidente nel rossore che gli imporporava la gola per poi salire lungo le guance, fino alla fronte. Allora piegava la testa indietro, passandosi le dita tra i capelli, quasi a volerlo scrollare, come l’acqua dai capelli dopo una doccia. “Lo chiamano Vicolo della croce, perché hanno trovato quella” disse alla fine, indicando una cornice di legno a pochi passi da loro. Merlo si avvicinò. Il muro era stato ridipinto da poco, tranne che per un riquadro di pietra grezza, sul quale era incisa una croce irregolare. Rametti di palma erano infilati intorno al bordo insieme al gambo rinsecchito di una rosa, che aveva perso i petali molto tempo prima.
“Dicono che c’era una bambina ammalata. Poi una mattina hanno trovato quella e allora è guarita. Un miracolo. Per questo lo chiamano vicolo della croce”. Merlo non dubitava della grandezza di Dio, ma non credeva che avrebbe manifestato la sua benevolenza con uno sgorbio. Il segno irregolare era simile alla X che le guardie forestali tracciavano con la vernice rossa sugli alberi da abbattere. Difficile vederci un intervento soprannaturale. Una chiave, un cacciavite forse, adoperato sicuramente da mano umana. Un simbolo che, quel giorno, si era rivelato funesto, come per i tronchi destinati alla segheria. Di fronte all’edicola votiva c’era una sedia, incassata in una rientranza che, in origine, doveva essere un portoncino poi murato. Il ragazzo aveva un piede piegato indietro e le mani intrecciate e abbandonate sul grembo. La testa era poggiata al muro. Un filo di sangue rinsecchito tracciava una linea da un angolo della bocca al mento. “Ha gli occhi chiusi” esordì Micheli, rinfrancato dall’assenza di reazioni di Fusco, dal quale si teneva a debita distanza per eccesso di prudenza. “I morti muoiono con gli occhi aperti. Qualcuno deve avergli chiuso le palpebre”. Andrea Merlo lo guardò. Micheli fece un altro passo indietro: “l’ho sentito alla televisione. Uno di quei gialli con la svitata che però nota tutte le cose che non si vedono. Lo diceva lei e poi scoprivano che era un serial killer che lo faceva a tutte le vittime. Chiudere gli occhi, dico”.
“Una volta tanto ha ragione” intervenne il medico legale, facendo ripartire la vampata dalla gola di Micheli, “Potrebbe essere così o forse stava facendo un pisolino e qualcuno, indispettito dal trovare la sua sedia occupata da un abusivo, gli ha piantato un coltello nel cuore”. Aveva l’abitudine di smorzare la tragica quotidianità che caratterizzava il suo lavoro con apparenti battute di spirito. Il tono, però, non era di quelli che fanno sorridere. Indicò un piccolo foro sul giubbotto del ragazzo. “Avete già fotografato tutto?” chiese, prima di infilarsi i guanti e procedere nell’osservazione del cadavere. “Avrà diciotto anni, forse meno. L’hanno colpito qui, vedete, proprio al centro di questo logo stampato. Il sangue è rimasto intrappolato sotto la stoffa impermeabile” confermò, sbirciando la ferita dopo aver abbassato di poco la cerniera che chiudeva la giacca. “Marescià? Maresciallo?”.
La voce apparteneva ad una donna affacciata al balconcino di fronte al cadavere. “Che c’è, signora?” chiese Fusco, senza curarsi di correggerla. La differenza fra Carabinieri e Polizia era poco chiara per la gente e, a volte, non valeva neanche la pena di evidenziare l’errore. “Posso stendere adesso? Vi ho avvisato io, appena l’ho visto quando sono uscita per stendere il bucato”. Merlo sospirò, le restrizioni della pandemia sembravano aver annullato la capacità di empatia degli esseri umani. L’egoismo aveva prevalso su ogni altro sentimento, come per quella donna, la cui priorità non era l’immedesimarsi nel dolore di una madre sconosciuta, ma terminare le sue faccende domestiche. Merlo non era mai riuscito a sentirsi indifferente. Un mestiere come il suo non lo permetteva. Ci si abituava a nascondere le emozioni sotto una maschera professionale, ma sempre, prepotente, c’era la pietà e il desiderio di dare risposte a chi non poteva più fare domande.
“Lo vede il nastro giallo?” le rispose Fusco, “dopo che lo avremo tolto, può fare quello che vuole. Adesso resti in casa, che fra un po’ saliamo a farle qualche domanda”. “E che vi devo dire ancora? Mi sono affacciata e l’ho visto. Chi lo conosce? Che ne so chi è?” la donna era infastidita, sicura di aver fatto ben più del suo dovere di cittadina. “Lo stabiliamo noi, se ci basta quello che ha detto” la zittì Fusco. Merlo si stupì, di solito il suo collega era più diplomatico, con quell’aria da falso superficiale che lo caratterizzava e che riusciva a sciogliere le lingue più reticenti. Ma quel ragazzino pallido, che sembrava assorto in preghiera, non ammetteva trattamenti di favore. Stavano portando via il corpo, quando una porta a vetri si aprì e una vecchia si affacciò con un mazzetto di ciclamini. “Scusate” spiegò, indicando i fiori, “li volevo mettere vicino alla sedia per quella povera anima di Dio”. Fusco si addolcì: “Dopo, signora, grazie. Rientri che fa freddo. Lei lo conosceva? Ha sentito o visto qualcosa, di quello che è successo?”.
(1 – Continua)