Arte contemporanea – I racconti al balcone

di Ida de Giorgio per il7 Magazine

Devono aver già suonato altre volte senza avere risposta, perché, a svegliarmi, non è il tocco rapido e educato di chi si appresta a disturbare la gente alle otto di mattina, ma una serie di trilli ripetuti. Nei fumi del sonno e dei residui della birra, prima penso che sia Pasqua e rivolgo al campanaro un pensiero non proprio caritatevole, poi realizzo che trattasi di dito di essere umano. Per fortuna di nostro Signore Gesù Cristo, non sono tipo da bestemmia, ma ho dato della donna di malaffare alla, forse incolpevole, madre del disturbatore. “Chi è”, sbraito al citofono con la voce roca di un bronchitico cronico fumatore accanito. “Sono l’amministratore, abbiamo avuto una segnalazione e dobbiamo controllare”. Apro, chiedendomi quale infrazione posso aver commesso. Realizzo di essere in mutande e cerco di infilare malamente il pantalone di una tuta ripescato dal cesto della biancheria da lavare. Resto a torso nudo, sono a casa mia, posso stare come mi pare. “Permesso” chiedono, mentre accendo la macchinetta del caffè sperando di recuperare un minimo di lucidità. Sono in due.
Ad uno la camicia tende sulla pancia, all’altra, invece, disegna forme morbide su un corpo niente male. “La geometra Cecconi” la presenta l’adiposo. La squadro per lungo, la gonna le sfiora le ginocchia. Faccio guizzare la tartaruga lanciando un segnale subliminale. Almeno credo. Addominali e birra non sono compatibili. “Che problema c’è”, chiedo ostentando una serenità falsamente imperturbabile. “Abbiamo ricevuto una segnalazione”. Anche la voce non è niente male. “La signora Borruti denuncia rumori molesti notturni che minano la tranquillità del suo sonno”. Quella vecchia malefica, l’unica ultraottuagenaria con l’udito di un pipistrello, un vampiro succhiasangue che vive augurando le peggiori disgrazie agli altri. “Guardi che io abito da solo, non ricevo nessuno e rientro quando la streg…, la signora è già a letto da tempo. A meno che non si apposti dietro la porta ad aspettarmi”. Come un avvoltoio, penso ma non dico. Lei ha un accenno di sorriso, talmente lieve che credo di averlo solo immaginato. L’altro non dice niente, ma guarda interessato il caffè che riempie la tazzina. Gliela cedo, sperando di tornare presto a sprofondare nel materasso. A fantasticare su cosa c’è sotto il tailleur della tipa. “Dobbiamo fare il nostro dovere, potrebbe farci vedere quale stanza corrisponde alla camera da letto della signora?”. Faccio strada, magari l’odore di maschio che staziona fra le lenzuola le scatena gli ormoni. C’è puzza di rancido e di birra svaporata. Tiro su la tapparella e apro la finestra. “Questo bagno è regolamentare?”, chiede.
Quando ho ristrutturato casa ho chiesto questa unica comodità supplementare. Tre passi e posso scaricare la vescica, quello patronale è troppo lontano. Non lo definirei bagno in camera, è proprio solo un cesso, un metro quadrato con il gabinetto al centro. Neanche un lavandino, figurati se di notte sto a pensare all’igiene. Però lo scarico c’è, lo aziono in automatico, da sonnambulo. Dovrei passare dei guai per la minzione notturna? Dovrei pagare per un minimo abuso edilizio giustificato dalla debolezza vescicale? Mi chiedo quanto insetticida spruzzare su una polpetta per ammazzare un cane. Accoppare l’animale ringhioso della vecchia sarebbe il minimo, con tutto il fastidio che mi sta procurando. Esito, poi ho un colpo di genio. “Non è un bagno, ma un’istallazione artistica”. Essere architetto servirà a qualcosa. Mi guardano. “È una copia del water d’oro di Cattelan” dichiaro, con una convinzione da oscar. Continuano a tacere, ma il guizzo divertito di lei si ripete. “Maurizio Cattelan è uno dei massimi artisti italiani” continuo con tono didattico, “sua è la scultura a forma di dito, Love, in piazza affari, davanti alla borsa di Milano. Love, acronimo di libertà, odio, vendetta, eternità”. Mi auguro di aver usato la parola acronimo in modo corretto, non sono neanche sicuro di sapere cosa significa. Evito di sottolineare che trattasi del medio, in inequivocabile posa. “Ma questo non è un dito” esclama lui, che, evidentemente, non ha la minima idea di chi sia Cattelan. “L’artista è famoso anche per America, un gabinetto tutto di oro. Centotrenta chili! Perfettamente funzionante. Un genio. Un’opera partecipata satirica”. Mi esce fuori così, residuo di qualcosa letto da qualche parte. “Ma questo non è d’oro” insiste il panzuto, convinto di mettermi nel sacco.
Ma, ormai, ho sgamato l’interesse di lei e non mi faccio fermare dallo scetticismo. “Per forza. Il water autentico è stato rubato. Non potevo certo rischiare che qualcuno, vedendolo, mi scambiasse per il ladro”. Appare quasi convinto. L’assurdità di ricreare un cesso d’oro in un appartamento alla periferia della città sembra non sfiorarlo. Insisto, più per vedere fino a che punto sono capace di reggere la parte che per convincerlo. “Pura ceramica ma forma identica. Ho inviato una foto all’artista, chiedendo una approvazione formale. Sono in attesa di risposta”. Ha un guizzo di reazione: “ma lei lo usa come un normale gabinetto”. “Ma è proprio questa la genialità dell’opera. Lo sprezzo della ricchezza, la metafora del valore intrinseco del metallo prezioso contrapposto al residuo alimentare dell’uomo”. Ormai sparo parole a caso, sempre più enfatico. Lei fissa un punto sul muro. Credo sia il cadavere di una zanzara finita a colpi di ciabatta. “Cerchi almeno di non tirare lo sciacquone in ora tarda. Abbia pazienza, dottore, la signora è anziana e ha il sonno leggero. Un po’ di comprensione non guasterebbe”. Il titolo onorifico sancisce la sua sconfitta. Anche la morte del cane. Passerà per naturale. Avrà centocinquanta anni come la vecchia. Li accompagno alla porta. Lui scende i primi gradini, lei indugia. “Mi chiamo Amalia. Amalia Cecconi”. Che nome conturbante. “Mi trovi sui social” continua. “Anche Cattelan”, sussurro. Torno a buttarmi sul letto. Le piacerà, usare il cesso d’artista.