Di Alessandro Caiulo per il numero 424 de Il7 Magazine
Bartolo Longo, come è ricordato dalla Sala Stampa Vaticana, è da sempre sinonimo della Madonna di Pompei. Vissuto tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, nativo di Latiano, quello che diventerà l’Apostolo del Rosario, vive una prima fase della vita con un disagio interiore molto acuto. Durante gli studi di Giurisprudenza a Napoli si avvicina per qualche tempo allo spiritismo per poi ritrovare la fede grazie all’aiuto di alcuni sacerdoti. Si accende in lui il desiderio di promuovere opere di carità e, diventato amministratore dei beni della contessa Marianna Farnararo rimasta vedova con cinque figli piccoli, lavora perché la gente povera che viveva sui terreni della nobildonna nella Valle di Pompei abbia una esistenza più dignitosa. Nel 1875 porta a Pompei una immagine della Madonna e nel 1876 avvia la costruzione del santuario destinato a diventare luogo di culto mondiale, consacrato alla Madonna del Rosario il 7 maggio 1891. Bartolo Longo sposa la contessa e insieme donano la proprietà del santuario a Leone XIII, che ne lascia ai coniugi l’amministrazione. Per il futuro Santo è l’inizio di una nuova vita di totale devozione alla Vergine, che esercita anche con un intenso lavoro di scrittura e diffusione di libri, opuscoli e riviste. Muore nel 1926. Giovanni Paolo II lo eleva agli altari nel 1980. Proprio questa enorme diffusione della devozione mariana scaturita dal Santuario di Pompei indusse nel 2024 l’Arcivescovo Delegato Pontificio del Santuario Tommaso Caputo e il vescovo di Acerra Antonio Di Donna, a chiedere a papa Francesco la canonizzazione del Beato Bartolo Longo.
Ma già prima di allora ed anche prima che il 26 ottobre 1980 Giovanni Paolo II, rompendo gli indugi e superando i pregiudizi che avevano in qualche modo influito sulla causa di canonizzazione, lo proclamasse Beato, erano straconvinti della sua santità centinaia di milioni di fedeli di ogni parte del mondo che ne avevano conosciuto le opere e le virtù, ne avevano saggiato la carità ed avevano sperimentato la potenza della preghiera del Rosario che con la sua opera aveva diffuso ovunque.
E che dire di Leone XIV che, eletto Papa l’8 maggio scorso, evidenziò subito che la sua elezione era avvenuta proprio nel giorno dedicato alla Supplica della Madonna di Pompei? Si tratta di quella stessa supplica che, scritta un secolo e mezzo addietro proprio da Bartolo Longo, con l’approvazione di papa Leone XIII, da allora viene recitata all’unisono da centinaia di milioni di cattolici in tutte le chiese del Mondo.
Mancavano pochi minuti a mezzogiorno di domenica 19 ottobre 2025 quando a Roma, in una Piazza San Pietro gremitissima di fedeli, a distanza di 99 anni dalla sua morte, Papa Leone proclamava Santo Bartolo Longo da Latiano, fondatore del Santuario della Beata Vergine Maria del Santo Rosario di Pompei, di una moltitudine di opere di carità diffuse in tutto il Mondo e della stessa Città di Pompei, edificata grazie al suo impegno, pronunciando in latino la formula sacramentale di canonizzazione riguardante lui ed altri sei beati.
Il tutto, dopo aver ascoltato la richiesta e la biografia, pronunciata da un altro figlio della Terra d’Otranto, il Cardinale Marcello Semeraro, già Vescovo di Oria, nel cui territorio ricade anche Latiano, ed ora Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, lo stesso prelato che il 25 febbraio scorso annunciò che, dal letto d’ospedale, Papa Francesco aveva approvato la canonizzazione.
Che ci sia voluto quasi un secolo per giungere alla canonizzazione, non deve destare meraviglia più di tanto in quanto, come accennato, parecchie pietre di intralcio furono frapposte dai suoi denigratori ad ogni piè sospinto.
Innanzi tutto ci fu chi ebbe a rinvangare un suo momento di sbandamento giovanile risalente a quando giunse a Napoli per completare gli studi universitari di Giurisprudenza e sedotto da teorie spiritiste, assai in voga negli ambienti universitari partenopei dell’epoca, abbandonò per qualche tempo la fede cattolica per abbracciare l’occultismo, per poi riconvertirsi a seguito dell’incontro con il conterraneo prof. Vincenzo Pepe e con quello che sarà il suo padre spirituale, Alberto Radente, trasformandosi, come disse Benedetto XVI, da persecutore ad apostolo, come San Paolo.
Molti nemici terreni gli creò la sua ferma convinzione, anche da avvocato e giurista qual era, che il destino di una persona non è scritto nel suo sangue e che chiunque può redimersi. E questo lo ha dimostrato attraverso i copiosi frutti che hanno dato le sue opere di carità in favore dei detenuti, dei loro figli, dei derelitti e degli ultimi e di tanta gente che si era persa nei meandri del peccato e della miseria. Ciò diede sicuramente non poco fastidio non tanto ai bigotti quanto al falso perbenismo che pervadeva larghi strati della classe intellettuale dell’epoca.
Come ben sottolinea Augusto Conte, ottimo avvocato e studioso di diritto di Ceglie Messapica, cittadina ricadente nella stessa Diocesi di provenienza di San Bartolo Longo, nella sua relazione dedicata alla “Giustizia e Fede del Santo-Laico Avvocato Bartolo Longo in contrapposizione alla Teoria del Delinquente Nato”, l’accanimento nei confronti di quest’avvocato venuto dal nulla, da parte di molti teorici del diritto fu enorme e si scatenò, oserei dire, con forza diabolica senza eguali.
Era sua ferma convinzione che prima ancora di parlare di giustizia e pace universale fra Stati, bisognerebbe adottarla fra le persone, anche quelle che cadono in disgrazia compiendo delitti, che vanno orientate al pentimento e alla redenzione perché “un convertito vale di più di novantanove giusti”. Bartolo Longo soccorse i figli dei carcerati destinati a delinquere, sfidando le fallaci teorie lombrosiane del delinquente nato, col lavoro e la preghiera, adottando un modello innovativo di riabilitazione sociale e percorsi alternativi incentrati su ragazzi e ragazze e non sulla cancellazione del loro presente e di ogni possibilità di futuro, nel rispetto della dignitas infinita della nostra umanità e nella eliminazione della disumanità delle pene.
L’avv. Conte evidenzia, al di là dell’incredibile opera religiosa compiuta in vita dal nostro Santo, la enorme rilevanza di quella sociale: nel 1887 costruì l’Orfanotrofio femminile e nel 1891 l’Ospizio per i figli dei carcerati (“orfani della legge” erano definiti i figli dei carcerati, degli ergastolani, dei delinquenti), sfidando in tal modo le teorie della scuola positivista e proponendo una rivisitazione degli studi scientifici del positivismo sull’uomo, per verificare, con l’impiego di scritti e concreta sperimentazione, privilegiando gli elementi morali e religiosi, la possibilità di valorizzare gli aspetti positivi per conseguire la risocializzazione dei deviati, fondamento della antropologia criminale. E questo grazie alla sua formazione professionale-morale ed anche religiosa che lo faceva porre di fronte alle condizioni di miseria di alcuni strati popolari non con umanitarismo e filantropismo, ma come espressione e manifestazione di spirito di Giustizia e Carità.
Quando, col sostegno di Leone XIII e l’aiuto di una infinità di benefattori di ogni classe sociale, istituì l’Ospizio che divenne accogliente luogo per attività lavorative, musicali e ginniche per i figli dei carcerati, la sua opera fu osteggiata dalla scienza imperante e dalla stampa che lo trattò alla stregua di un ciarlatano che agiva a fini speculativi all’ombra del Santuario. Fu definito “un tale togatulus”, cioè un avvocaticchio da quattro soldi, un impostore affaccendato a trarre denaro da idee meschine all’ombra della Madonna di Pompei. Era diffusa la convinzione che, così facendo, la Valle di Pompei sarebbe diventata un vivaio di delinquenti, un covo di belve. Si scatenò contro Bartolo Longo una lotta di potere che mirava ad estrometterlo dalla gestione degli Istituti. A Papa Pio X fu descritto come uno degli avvocati più imbroglioni d’Italia e ne fu chiesta addirittura la scomunica. Secondo la scuola di antropologia criminale che andava per la maggiore, quella di Cesare Lombroso, che di Longo fu un contemporaneo, la trasmissione della tendenza al crimine si concentrava nella espressione “figli di ergastolani, predestinati ergastolani”, non essendovi nulla da fare per l’educazione dei figli di delinquenti (ndr, è lo stesso che teorizzava l’inferiorità dei meridionali). Lombroso insegnava la corrispondenza tra fisico e morale, assegnando all’uomo vizioso, immorale, delinquente i caratteri fisici e psichici, esagerati fino alla mostruosità, che nella estetica e nell’etica di un dato popolo in un dato momento contrassegnavano la bruttezza, e – ora la cosa fa sorridere, ma allora era utilizzata da Magistratura e Forze dell’Ordine- adottando il sistema di congetturare dai lineamenti del volto e da altri segni caratteristici della persona, giungeva ad affermare che tra più sospettati il maggiore indiziato era sempre quello dall’aspetto più brutto e ripugnante. Corollario di questo modo di intendere era che per certi tipi di delinquenti, sotto qualsiasi regime penitenziario, l’emenda era impossibile, perché si trattava di una varietà del genere umano, dominata da un’anormale costituzione organica o psichica, ai quali non ripugna il delitto che costituisce l’esercizio di un diritto o, bene che vada, un’azione indifferente per cui è impossibile che l’autore possa provare pentimento, essendo sempre pronto a delinquere nuovamente appena espiata la pena, costituendo il carcere solo un pericolo del mestiere.
Uno dei grandi meriti terreni di Bartolo Longo è stato quello di aver sconfessato con i fatti, prima che con le parole, questa teoria dominante, indirizzando le sue opere proprio alla classe più abbandonata dei fanciulli, quella che la scienza ufficiale definiva nati delinquenti, per distinguerli dai nati onesti. I figli dei carcerati e dei forzati che avrebbero rivisto i loro figli solo quando li avrebbero raggiunti nelle prigioni per effetto dei propri delitti; i figli dei carcerati, condannati dalla nascita a battere la via del crimine, infatti, non godevano neppure dei benefici degli orfani, perché tali non erano, ed erano costretti, fin dalla nascita, a portare il marchio dell’infamia.
San Bartolo come egli stesso racconta e come l’avv. Conte ci ricorda, raccolse “il grido represso che da tanti anni racchiudeva l’eco di tanti drammi ignorati dalla infanzia derelitta, di tanto inenarrabili sventure, di tanti clamori di misere madri e padri sciagurati che, dal fondo delle galere, dal fondo delle prigioni, stendevano le scarne braccia, facendo uscire da quei buchi tenebrosi voci lamentevoli di pietà imploranti soccorso per l’infelice loro prole, innocente delle loro colpe.”.
La sua scommessa fu vinta con il lavoro e la preghiera, facendone una dimensione sociale, colmando il distacco della società degli uomini liberi dal mondo delle famiglie dei carcerati, vincendo la indifferenza e la diffidenza, contrapponendo alla fredda scienza la Giustizia e la Carità, contro lo scetticismo della scuola positivista, riuscendo a scardinare i principi disumani della scienza antropologica criminale sulla trasmissione della tendenza al crimine.
Grazie alla forza e pervicacia che gli veniva dalla preghiera del Rosario, vinse anche questa battaglia, ottenendo, man mano, il placet di magistrati, direttori carcerari, scrittori, filosofi e, infine, anche degli studiosi di scienze penali non solo in Italia, ma anche all’Estero, che dovettero prendere atto che constatare che i giovani (delinquenti nati) provenienti dal suo Istituto si erano inseriti in officine, nel clero, nell’esercito, nelle bande militari, nelle libere professioni, né più né meno dei cosiddetti nati onesti. Fu chiaro a tutti che l’opera di Bartolo Longo non si limitava ad essere mero assistenzialismo, ma una vera e propria rivoluzione che si manifestava come sfida, giuridica ed etica al secolo dello scientismo positivistico e della scienza criminologica ufficiale che aveva irriso polemicamente i suoi discorsi e le sue iniziative a tutela dei figli dei carcerati utilizzando pregiudizi che si ammantavano di scientificità.
In tre anni, con il progetto “Lavoro e Preghiera” dimostrò che la rilevata tendenza al crimine di giovani ospitati già dichiarati “incorreggibili” era cambiata, e ciò suscitò una rabbiosa reazione della scuola positivista che, negando l’evidenza dei fatti, riteneva antiscientifica la metodologia utilizzata e non veritiera la modifica della tendenza e dell’istinto criminale, cui non poneva rimedio né l’attività lavorativa, inutile per la redenzione e che la preghiera era inefficace e dannosa su animi privi di senso morale. A ciò Bartolo Longo opponeva, nel rispetto della scienza, il campo e il criterio della carità, che genera fiducia, elevando il lavoro, quale mezzo educativo, a preghiera secondo il concetto espresso da San Tommaso D’Aquino, con l’aggiunta di attività ginniche, musicali e abitudini igieniche, favorite da una struttura ampia e pulita, attrezzata di strumenti di svago e lavoro che educavano al senso sociale i fanciulli sottratti alla strada e ad ambienti malsani.
Un po’ come accadde, quando era in vita e per ben due volte, con l’appoggio del Pontefice dell’epoca, fu proposta la sua candidatura per il premio Nobel per la Pace, scatenando le invidie e le maldicenze di chi non digeriva i suoi carismi.
Nell’omelia, Leone XIV lo ha ricordato “fedele amico di Cristo”, benefattore dell’umanità” con un “cuore ardente di devozione”, un laico che ha speso la vita per gli ultimi e ricevendo i pellegrini, il giorno dopo, ha sottolineato la sua conversione da uomo lontano da Dio ad una vita fatta di opere di misericordia, sostenuta dall’amore per Maria e ha invitato il Santuario di Pompei a custodire e continuare a diffondere il fervore di questo “Apostolo del Rosario”.
Domenica 26 ottobre sarà la sua Latiano a ricordare Bartolo Longo con il giorno del ringraziamento: alle 16,30, presso la Chiesa Madre, dove il santo ricevette il battesimo, si terrà una solenne concelebrazione Eucaristica, presieduta dal Vescovo di Oria Vincenzo Pisanello; all’inizio della quale verrà posta sulla statua del Santo l’aureola e la corona del rosario argentee. Al termine della Messa, statua e il reliquario verranno portati in processione per le vie della Città, con la partecipazione di tutte le associazioni di Latiano e le confraternite dell’intera Diocesi. Di amore per la sua città, che finalmente ricambia, è impregnato il saluto di commiato a chi lo aveva ospitato quando vi era tornato per qualche tempo, pochi mesi prima della sua morte: “il Comm. Avv. Bartolo Longo, nel far ritorno alla Reggia della sua Gran Signora, Regina del Rosario di Pompei, lascia i suoi più affettuosi saluti alla S.V.Ill.ma, il suo cuore a Latiano, ai poveri e ai fanciulli, speranza della Comune Patria”.