Belloluogo di nome e di fatto: ecco la masseria simbolo di Mesagne 2024

di Alessandro Caiulo per il7 Magazine

Quella che ho visitato nell’ultimo fine settimana è, con ogni probabilità, una delle più belle e maestose masserie fortificate dell’intera Puglia anche se non è molto conosciuta in quanto, almeno fino ad ora, la sua esistenza è rimasta quasi nascosta, sebbene trovasi ad appena ottocento metri dalla strada che collega Mesagne a San Vito dei Normanni, equidistante dalle due cittadine.
Solamente gli abitanti del luogo, gli appassionati di storia locale e poche altre persone che, casualmente, si sono trovati a transitare per la S.P.37 bis (la bretella che collega San Vito scalo con la Mesagne-San Vito), ne hanno potuto, magari solo di sfuggita, ammirare la incredibile bellezza.
Più che di una masseria dà l’idea di un castello, di un antico maniero, vuoi per l’integrità delle sue torri, vuoi per i caratteristici merli che coronano le mura perimetrali della imponente costruzione che rimandano la memoria indietro nel tempo, ai racconti di dame e cavalieri che un po’ tutti abbiamo ascoltato, senza mai stancarci, quando eravamo bambini.
Stiamo parlando della Masseria di Belloluogo, una struttura cinquecentesca a corte chiusa, con tanto di torre rinascimentale munita di loggia e caditoia, rivisitata in chiave neogotica nell’Ottocento, quando la masseria apparteneva alla potente famiglia brindisina dei marchesi Ripa, che ne fu proprietaria per oltre un secolo, fino a quando l’ultimo rampollo della dinastia, il marchese Teodoro, dedito, più che alla cura del patrimonio immobiliare di famiglia, alla sua dissipazione, da buon avventuriero e giocatore d’azzardo, pare che scialacquò tutto ciò che rimaneva giocandoselo a carte.
Negli anni venti del secolo scorso la masseria fu acquistata da Spiros Cocotò (proprio il ricco commerciante greco di carbone dell’arcinota villa sul porto di Brindisi), per poi finire in mano pubblica a seguito degli espropri del dopoguerra, allorchè la fame di terre dei contadini spinse lo stato a varare la riforma agraria, colpendo i latifondisti specialmente quelli di estrazione nobiliare ed alto borghese, per consegnare tutta una serie di piccoli appezzamenti ai coltivatori.
Discorso diverso ed estremamente fallimentare per l’Ente Riforma, fu quello di cercare di gestire l’enorme patrimonio immobiliare, di rilevanza storica, architettonica ed anche artistica, formato dalle decine e decine di masserie fortificate che, giocoforza, non potevano essere consegnate ai coltivatori e, d’altra parte, era troppo costoso effettuare le opere necessarie per evitarne la rovina.
Fin qui nulla di nuovo: è stata questa la sorte di una gran numero di imponenti strutture che, alcune ormai ridotte a ruderi, sono disseminate nelle nostre campagne.
Ma non rientra in uno di questi casi la Masseria Belloluogo, in quanto nel 1991, quando oramai era stata da anni abbandonata dall’ERSAP (acronimo di Ente Regionale di Sviluppo Agricolo della Puglia), l’allora sindaco di Mesagne Elio Bardaro, democristiano di vecchio stampo che per quasi venti anni è stato seduto sullo scranno di primo cittadino, chiese ed ottenne dalla Regione Puglia – probabilmente sottacendo che la costruzione si trovava in agro di Brindisi, sia pure al confine con quello di Mesagne – la donazione di essa in favore del suo comune,.
Dal momento che si trattava di passaggio di proprietà a titolo gratuito fra due enti pubblici, occorreva giustificarne l’uso che intendeva farsene e fu allora preso l’impegno di realizzare una comunità terapeutica di recupero dei tossicodipendenti. Agli inizi degli anni novanta era molto sentito il problema della tossicodipendenza: erano migliaia nella nostra provincia le persone, soprattutto giovani, con dipendenza da sostanze stupefacenti, eroina su tutte, che conducevano a menomazione sociale e lavorativa con gravi ripercussioni sulla salute fisica e mentale dei soggetti non in grado, senza concreto aiuto terapeutico e lunghi periodi di ricovero in strutture adeguate, di uscire dal tunnel della droga.
Di comunità di recupero tossicodipendenti non se ne è avuta mai traccia né sentore, da queste parti, anche se quasi un miliardo delle vecchie lire fu speso, in due trance, fra il 1993 ed il 1996, per i lavori più urgenti e nel tentativo di ridare una parte dell’antica dignità a questo bel luogo.
Dopo una dozzina di anni di abbandono, nel 2008, sotto l’amministrazione Incalza, la struttura fu ripulita in attesa di inserirla in un piano di recupero, mai concretamente avviato.
Nel 2014 l’amministrazione guidata dal sindaco Scoditti inserì la Masseria Belloluogo nel piano di alienazione dei beni comunali per ragioni di bilancio e, nel 2015, sotto la guida del sindaco Molfetta, su concorde voto della maggioranza dei consiglieri comunali, si stava per cederla ad una società romana a poco più di un milione di euro, dimenticando l’esistenza del vecchio vincolo di destinazione pubblica che la Regione Puglia aveva doverosamente imposto e che ne impedì la cessione ai privati.
Dopo un altro lustro di abbandono, questa estate si è tornati non solo a parlare del recupero di questa antica masseria ma, la stessa, è divenuta uno dei simboli trainanti per la candidatura della cittadina messapica a capitale italiana della cultura: oltre al Castello Normanno-Svevo che, ovviamente, fa la parte del leone, anche i bellissimi merli di masseria Belloluogo sono stati inseriti nel logo del progetto ideato e realizzato dall’architetto Simonetta Dellomonaco, cosicchè l’intero complesso masserizio, proprio attraverso questo progetto, potrebbe essere finalmente recuperato e valorizzato come merita, una volta per tutte, sia che Mesagne venga scelta come capitale italiana della cultura per il 2024, sia che non lo sia.
Stimolato dalle notizie raccolte, mi sono recato a far visita a questa sontuosa masseria che, per un paio di volte, avevo solamente intravisto, senza essermi mai potuto soffermare.
Mi accolgono, con il loro pigro e poco convinto abbaiare, una mezza dozzina di cagnetti che mi si avvicinano più con curiosità che con spirito aggressivo; avendo in auto la spesa appena fatta per il mio cane, gli apro una scatoletta da chilo e mezzo di carne ed assisto compiaciuto al gradito buffet, che mi fa guadagnare la stima e la fiducia di quella che diverrà per l’ora successiva, la mia festante e scodinzolante scorta.
La costruzione è davvero imponente e ben messa, i merli in pietra sulla cima della costruzione mettono quasi soggezione, a fianco all’edificio principale, quello tanto simile ad un castello medioevale, c’è una bella chiesetta ma, prima di avventurarmi all’interno preferisco fare un largo giro esterno alle mura che racchiudono la masseria e l’intera sua corte.
Tutt’attorno campi ben coltivati ad orto, a vigneto e, ovviamente, ad uliveto, mentre non c’è più alcuna traccia del bosco che, originariamente, copriva circa la metà della tenuta attorno al maniero; effetto della riforma agraria del dopoguerra e del disboscamento selvaggio che, qui come altrove, ne conseguì, per consentire ai contadini di poter coltivare qualche pezzo di terrà in più.
Le mura sono integre e per lunghi tratti protette da una coltre invalicabile di spinosissimi fichi d’india; dal lato opposto, vi è una bellissima torretta rinascimentale ed un ingresso secondario che, passando sotto un arco in pietra, fa accedere direttamente all’interno della corte ove sono ancora ricoverati alcuni mezzi agricoli.
Continuando la circumnavigazione sono costretto ad allungare il percorso per trovare una stradina transitabile a piedi, in quanto la pioggia dei giorni precedenti ha reso problematico il passaggio attraverso i campi. Giunto nuovamente nei pressi dell’ingresso principale, la mia curiosità è attratta da uno strano manufatto in pietra che si erge per alcuni metri, al di là della strada, nella vicina campagna, che potrebbe essere una vecchia fontana in disuso, con sottostante cisterna per la raccolta delle acque.
L’interno dell’edificio principale è molto ben messo ed anche i servizi sono integri: una vera rarità per uno abituato a girar per masserie e che troppo spesso trova strutture anche di valore storico – su tutte Villa Pignicedda, ma non solo – completamente devastate e cannibalizzate da vandali e predoni di ogni genere che han portato via anche gli infissi, le chianche del pavimento e, quello che non riescono a rubare, lo distruggono.
Grazie a Dio la buona guardia che evidentemente ne fanno i vicini ha fino ad ora tenuto lontani gli appetiti dei malintenzionati, altrimenti anche il miliardo di lire speso negli anni novanta per il suo risanamento, sarebbe andato sprecato.
Due sedie, risalenti a chissà quale periodo sono ancora posizionate vicino al grande camino che adorna il salone principale.
Mi affaccio dal balcone e mi ritrovo proprio sotto la caditoia e lo stemma araldico che adorna la facciata: sotto di me la bella chiesetta e sopra di me i merli del castello sembrano invitarmi a salire ancora; cosa che faccio volentieri e, il tempo di guardarmi attorno, comprendo il perché del toponimo Belloluogo, in quanto non si può definire diversamente il panorama mozzafiato che si presenta agli occhi di chi dalla cima della costruzione osserva la bellissima e fertile campagna che si estende fra i confini degli agri di Brindisi, Mesagne e San Vito dei Normanni.
Siamo troppo lontani dalle città per poterle intravedere: solo verde e campi coltivati, con l’unica eccezione di un appezzamento coperto da orrendi pannelli fotovoltaici che spezzano un pò l’incantesimo.
Ne approfitto per fare qualche scatto, anche attraverso il bel comignolo in pietra sulla canna fumaria del camino che pocanzi avevo ammirato e torno giù, a fare un giro della corte.
La visita alle stalle mi fa venire alla mente un vecchio episodio legato al brigantaggio – spesso, nel brindisino, la storia delle masserie si intreccia con quelle dei briganti – che, subito dopo l’Unità d’Italia, ebbe a coinvolgere proprio il giovane stalliere della masseria Belloluogo, un tal Giuseppe Greco di Vituddo (figlio di Vito), che nell’autunno del 1862 si ritrovò ad essere brigante per caso e per forza: durante un’incursione della temibile banda del brigante Nenna Nenna, fu costretto a seguirla sotto la minaccia di una pistola puntata alla tempia, in quanto c’era bisogno di qualcuno che governasse gli animali; nonostante questa coercizione subita fosse stata provata durante il processo che si tenne alcuni anni dopo presso la Corte di Assise di Bari, come anche fu provato che non avesse mai fatto uso di armi, ma il suo apporto alla banda si era limitato a dar da mangiare ai cavalli per un periodo molto limitato e non appena ne aveva avuto l’occasione si era consegnato spontaneamente ai carabinieri, il povero Giuseppe di Vituddu fu ritenuto egualmente colpevole “per avere negli ultimi mesi del 1862 fatto volontariamente parte di un’associazione di malfattori riuniti nel circondario di Brindisi in numero non minore di cinque ad oggetto di delinquere contro le persone e contro le proprietà” e fu per questo condannato a ben venti anni di lavori forzati che scontò interamente ed al termine dei quali convolò a nozze con la sua bella morosa Rosaria, la quale lo aveva pazientemente e fedelmente atteso per tutti quegli anni.
Tornando alla nostra passeggiata, ritrovo, all’uscita della masseria, i miei amici pelosi e scodinzolanti che mi stavano aspettando stesi a scaldarsi al tiepido sole autunnale e che mi scortano verso la chiesetta. Sono costretto a farmi largo fra la fitta vegetazione per poter accedere al suo interno. Anche qui nessuna traccia di vandalismo e la struttura che appare decisamente integra: le alte volte in carparo la fanno apparire più grande di quello che è; dalla parete manca la tela seicentesca raffigurante San Carlo Borromeo, in quanto è ora custodita dalla Curia di Brindisi, come anche una statua in cartapesta leccese della Madonna di Pompei, risalente ad un secolo fa.
Solamente tre dei cani della numerosa ciurma mi accompagnano fino alla macchina, parcheggiata qualche centinaio di metri distante dalla masseria, per cui – mi perdonerà il mio Walker, l’originario destinatario del cibo, anch’egli con un trascorso di trovatello e che adottai tramite il canile comunale – apro per loro una seconda scatola di carne per premiarli della fedeltà e farli rimpinzare a sazietà.
Mi dirigo verso San Vito scalo e, dopo nemmeno un paio di chilometri, transito su un ponticello che attraversa il Canale Reale che scorre nelle campagne a sud di Mesagne e San Vito dei Normanni, prima di sfociare a mare in agro di Brindisi poco a nord di Apani ed ho così la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, della ricchezza storica, artistica e culturale, fatta di masserie, tracciati romani, chiese rupestri e quant’altro, che ospita questa parte della campagna brindisina e che se fosse valorizzata maggiormente sarebbe un grande volano per il turismo e l’economia del territorio.
Per intanto speriamo che almeno la stupenda masseria Belloluogo venga effettivamente recuperata e votata all’utilizzo pubblico entro la fatidica data del 2024: sarebbe già un gran bel passo verso la direzione giusta.