Il cammino di questa settimana raggiunge un’ulteriore meta sulla strada della consapevolezza, dei luoghi e delle energie, di cui manchiamo di nutrirci, per crescere in formazione culturale, sociale e civile.
Posta al vertice settentrionale della provincia di Brindisi, si mostra, sul lato mare, in tutta la sua arcaica possenza, una muraglia megalitica, risalente a 28 secoli fa. È limite all’approdo al porto di Egnazia, l’antica città, andata perduta, sorta intorno al 1500 a.C.
Per raggiungerla, occorre seguire il tragitto della strada provinciale n. 90, che da Torre Canne porta sino ai resti della città di Egnazia lungo il tragitto costiero della Via Appia Traiana, di cui resta niente, se non il profilo basso e scoglioso della costa ed il sapore forte di una natura che di recente è stata addomesticata e resa tra le più appetitose mete di un turismo di alto bordo, data la presenza di rinomatissime attività ricettive.
Sorvolo, per non distrarre il lettore, dal pensiero che da quelle parti la pesca e la raccolta di ricci di mare, hanno dato vita e sostengono gli abitanti di Savelletri.
Prima di addentrarci nel cammino che impegna il visitatore per almeno due ore, se non di più, mi pare necessario partire da un punto fisso, l’opinione di due eminenze della storia antica, il primo Strabone che scrive nel primo secolo a.C.: “Per chi naviga da Brindisi lungo la costa adriatica, la città di Egnazia costituisce lo scalo normale per raggiungere Bari, sia per mare che per terra”.
Suggestiva è la dichiarazione che fa Orazio nel suo viaggio da Roma a Brindisi, compiuto alla fine del I secolo a.C., nel quale definiva la città di “Gnatia” “Gnatia lymphis itatis exstructa” “Gnatia” costruita sulle acque tempestose (Satira V, libro I).
La letteratura archeologica annovera una moltitudine di interpretazioni del famoso verso, ma chi giunge a Egnazia non può non condividere una lettura filologica recente che associa il termine “lymphis iratis” alle acque in tempesta dell’Adriatico su cui la città si affaccia, definito altrove, dallo stesso autore latino, “iratum”.
Orazio, che giunse a “Gnatia” percorrendo la “via Minucia”, dopo aver attraversato le mura di età messapica, che continuavano a racchiudere la città in età romana e che ancora oggi, in un tratto a picco sul mare, sono conservate all’altezza originaria. Proprio a Egnazia la via Minucia si confondeva con la via Appia Traiana, per giungere, con questa denominazione sino a Brindisi terminando dinanzi al suo porto.
La “via Traiana”, fatta realizzare nel II secolo d.C. dall’imperatore Traiano, con la pavimentazione di tratti della “via Minucia”, continuava a essere ancora l’arteria principale di collegamento, come prova il tracciato all’esterno delle mura di Egnazia.
Vari solchi carrai profondamente scavati nella roccia indicano che la mancanza di quella manutenzione costante, che si aveva prima delle vie pubbliche, costringeva i carri a deviare dal tracciato originario.
Orazio, quindi, vide certamente i principali edifici pubblici e religiosi: la piazza porticata, la basilica civile, il foro, le terme pubbliche, il porto, un tempio sulla parte più elevata sul mare. Edifici tutti che, con varie successive trasformazioni, connotarono la città sino al VI secolo d.C., quando, ormai in abbandono, fornirono materiali da utilizzare per le nuove costruzioni, come provano le calcare che si impiantarono nelle loro vicinanze, o divennero delle discariche di detriti, come le terme e il criptoportico.
La città di Egnazia, testimone di trenta secoli di storia, fu gradualmente occultata dalla vegetazione e la fortificazione bizantina, eretta sulla parte più elevata della città, perse la sua funzione di difesa del territorio dai Longobardi.
In età medioevale piccoli nuclei di abitanti si insediarono fra i ruderi della città o riutilizzarono come abitazioni le tombe a camera dipinte di età messapica, adattandole alle lor esigenze. Fu questo il tempo nel quale le popolazioni arretrarono nelle campagne e sulle vicine colline murgiane, per dar vita a centri abitati, come la principale città del territorio, Fasano, nata appena dopo l’anno mille.
Il nome della città viene dal XIV secolo d.C. tramandato solo nelle carte nautiche e nella cartografia, riferito ad una torre costiera sul mare (Avanzo, Adonazzo, Arazzo, Umanza, Amanza, Anazzo, Agnazzo).
Bisognerà attendere il 1809 per risentire parlare dell’antica città messapica, a causa dei primi ritrovamenti eseguiti da soldati della vicina guarnigione francese. Il ritrovamento di ceramiche e la scoperta di sepolture avviò presto la stagione del saccheggio prima che si provvedesse alla redazione di un piano d’intervento con campagne regolari di scavo e di raccolta. Tra le vicissitudini del sito, anche la variazione di provincia a far data dal 1927, quando fu istituita la provincia di Brindisi, cui furono attribuiti i territori costieri di Torre Canne, Savelletri ed Egnazia ed i comuni di Fasano e Cisternino, sino a quel tempo in provincia di Bari e che vedeva il sito di Egnazia ricadere nel territorio comunale di Monopoli.
Sorta presumibilmente nel XVI secolo a.C., Egnazia è luogo che raggruppa in un solo progetto trenta secoli di umanità. Dagli Japigi, ai Messapi ai Greci per giungere ai Romani e ai Goti, nell’area di circa 40 ettari, si concentrano testimonianze che pongono l’antica città al vertice di ogni possibile progetto di elaborazione per lo sviluppo culturale, sociale ed economico della provincia brindisina.
Il Museo Archeologico, costruito nei pressi degli scavi, è il luogo privilegiato al bisogno di conoscenza storica e la raccolta di reperti che sono conservati, si allarga a quelli rivenienti da altri importanti siti provinciali. Accade che tra questi si trovino quelli di punta delle Terrare di Brindisi risalenti, pure loro al XVI – XIV sec. a.C. o la sepoltura a cassa laterizia ritrovata in via Provinciale per San Vito, sempre a Brindisi e per citare, anche le steli rinvenute in via Castello a Mesagne nel 1997 di epoca romana.
La visita al Museo è propedeutico alla visita del sito e la appropriata esposizione dei reperti facilita la comprensione di un percorso temporale affascinante ed interessante.
Reperti come la testa di Attis, la divinità orientale, dalle fattezze delicate ed armoniche come il busto della statua di Demetra, fanno il paio con la notevole importanza dei vasi, ceramiche e statuine che narrano fin dentro la intimità la storia di una città.
Il forte vento di scirocco, scatena le forze naturali e a farne le spese la rete di recinzione di un cantiere che aggiorna ed ingrandisce gli spazi espositivi a disposizione del Museo, titolato a Giuseppe Andreassi, che è stato lo storico direttore del museo di Egnazia, archeologo e studioso, che è anche stato Soprintendente ai Beni Archeologici della Puglia sino al 2010.
Gli scavi consentono la visione dall’esterno dell’intero perimetro e leggere le didascalie e guardare ed immergersi in un passato così lontano è tutt’uno col pensiero che rincorre le tante occasioni perdute di fare di luoghi come questi, il pilastro dello sviluppo del territorio.
L’emozione sale a mille quando ci si trova dinanzi al tracciato della Via Appia Traiana, la Regina Viarum, il luogo principe per eccellenza, che attraversa la città e ne definisce il ruolo con le aree destinate al culto, all’incontro, alla cura.
Già nel visitare il museo, in una confortevole sala vieni introdotto al tema delle terme ad Egnazia, la loro funzione, la loro destinazione successiva, quando sono divenute caldaie per la produzione della calce!
La grande impalcatura che preserva l’area dall’azione della pioggia, e la lunga passeggiata sospesa sul perimetro, insieme alla presenza di pannelli di spiegazione, facilitano la comprensione di un concetto che oggi tradurremmo con l’acronimo S.P.A., che ci arriva comunque dall’allocuzione latina: “Salus Per Aquam”.
Nel tragitto guidato, l’ultima area è quella della necropoli, posta a sud ovest del parco archeologico, qualche centinaio di metri dalle costruzioni civili.
Immagino che forse sia degno e rispettoso ossequio al luogo dove riposano le memorie di tanti defunti e la cura ritrovata dopo tanta sevizie, rende pace allo sguardo che si accosta con fare sacro, tralasciando ogni mondanità.
Lentamente e col bastone che mi sorregge, sento il peso della visita e non già quello fisico, ma quello che interpella le ragioni di un cammino che, meta dopo meta, mostra sempre più il raccordo tra i luoghi e le storie.
Poche decine di metri più a nord, la piccola provincia di Brindisi, cede il passo a quella di Bari. Capitolo di Monopoli si chiama la frazione e saluta chi arriva da sud col poderoso impianto di un acqua-park che la pubblicità lo vuole come il più grande del meridione, ma questo è un altro capitolo.
Sulla strada del ritorno mi accorgo che le aree che attraverso sono limitrofe ad importanti centri di ricezione turistica, fra i più lussuosi e costosi.
Mi fermo a Savelletri, centro di pesca e di serena vacanza, come pure Torre Canne dove giungo dopo aver seguito con gli occhi la teoria delle attività ricettive ed i ristoranti che spopolano con il loro riccio di mare.
Torre Canne è famosa per la sua stazione termale e per quel faro che nessun vento disturba e nessuna oscurità acceca, mi accoglie.
Mi siedo ai suoi piedi e mi accorgo di aver percorso una strada che nonostante i trenta secoli raccontati e i venti della via più trafficata, portano alla medesima meta che è lì ancora davanti, ancora lontana da raggiungere, meno da concepire e che porge tutta la dignità di una terra che ci regala enormi potenzialità che noi, ogni colta, giochiamo alla roulette russa della vanità.
Troppa pare la strada necessaria per ritornare al Museo Nazionale di Egnazia e sostare dinanzi ad un raro manufatto, un icosaedro, un prisma a venti facce triangolari equilatere. Si chiama solido platonico e le sue caratteristiche, a partire dalle lettere dell’alfabeto greco che sono incise su ogni faccia, riecheggiano una necessità per tutti di meditare, fermarsi a riflettere e capirli alcuni dei suoi reconditi significati filosofici. Non sono reconditi né nascosti da alcuna filosofia, i bisogni di riprendere il cammino e farci, tutti un buon esame di coscienza e vivere il nostro territorio, nell’attenzione e nel rispetto della sua naturale vocazione.