I vantaggi della Dad – Racconti al balcone (prima parte)

La sveglia suona alle otto meno dieci e questo è già un grande sollievo. Niente levatacce per turni in bagno, colazione e tragitto in auto fuori provincia. Il tempo di un caffè, mi sciacquo il viso, un filo di matita sugli occhi e rossetto. Indosso solo una camicia o un maglioncino sul pantalone del pigiama, tanto vedono solo la mia faccia e le mani, quando gesticolo spiegando la lezione. Alle otto e trenta sono pronta per il collegamento. La mia postazione è il tavolo della cucina, con alle spalle frigorifero e dispensa. Strategica per evitare che si vedano le stoviglie sporche nel lavello, critica se qualcuno dei miei conviventi decide di andare a prendere una bottiglia di acqua fresca transitando in mutande dietro di me. Non ho altre opzioni: lo studio è riservato alla figlia liceale e la cameretta all’universitario. La mia stanza da letto è off limits, perché mio marito fa anche turni notturni e pomeridiani e, quando capita, si trattiene a dormire il più a lungo possibile. Per fortuna, la fibra di ultima generazione ci permette di lavorare in contemporanea senza problemi. Un sospiro e accendo il computer. Compaiono uno dopo l’altro i miei studenti, in tutto il loro splendore di adolescenti. Alcuni sbadigliano e altri si nascondono dietro immagini di principesse Disney, supereroi o attori e cantanti di cui io ignoro nomi e generi musicali. All’appello rispondono tutti o quasi. Non ho ancora capito come si possa fare assenza stando in casa propria, salvo essere rintronati da una febbre altissima, ma tanto la giustificazione mi arriva dai genitori. Contenti loro. Oggi ho deciso di interrogare, la scuola deve seguire il suo corso, anche a distanza. Reagiscono sgomenti alla notizia.
Alcuni scompaiono come emuli di Houdini e si limitano a scrivere in chat che, guarda caso, la connessione è ballerina e anche su Facebook e Instagram dicono che non va bene in tutta Italia. All’inizio mi sgolavo alla ricerca dello studente perduto, poi ho deciso di ignorare il fenomeno dell’evaporazione spontanea perché il tempo perso a cercare di recuperarli limitava la già complicata lezione. Il solito gruppetto di sapientini si offre volontario. Non è che studiano, sono diventati esperti nel messaggio compulsivo. Preparano le risposte e se le inviano l’un l’altro con WhatsApp. Poi leggono dallo schermo, con gli occhi bassi a mimare la concentrazione, facendo finta di nulla. Almeno ci sperano. Naturalmente, io li sgamo subito ma ho deciso di non intervenire più. L’istruzione è un privilegio, una fortuna riservata a chi vive in paesi progrediti e civilizzati come il nostro. Dovrebbero capirlo da soli che la furbizia non è una soluzione e che, prima o poi, finirà con il ritorcersi contro.
Brontolano per i sei, convinti che il copia e incolla sulla Rivoluzione francese sia più che meritevole di un voto alto. Vuoi mettere Wikipedia con il libro di testo? So già che si lamenteranno, bollandomi con epiteti che preferisco non riportare. Scatta la prima pausa. Ben dieci minuti perché, poveretti, per i videogiochi non c’è rischio di abbrutimento accanendosi sui tasti a tempo indeterminato, ma seguire le lezioni ininterrottamente per un paio d’ore provoca danni irreversibili. Per me, è garanzia di efficienza casalinga. Si possono fare un sacco di cose, sfruttando la “ricreazione”. Lavare le tazze della colazione, avviare la lavatrice, stendere il bucato, sminuzzare le verdure, impanare le cotolette, rifare i letti. Ogni intervallo, una mansione svolta. Altro che tornare di corsa alla fine della mattinata e non avere neanche il tempo di lavarsi le mani prima che i figli vengano a chiedere cosa si mangia. La seconda ora spiego. I ragazzi si rilassano. Questa volta non hanno bisogno di nascondersi, anzi. Con poco sforzo dimostrano di essere attenti e consapevoli. Lo fanno anche in classe. Solo che dietro agli occhi fissi su di me non sempre c’è una mente connessa. “Martini, sei distratto”. “No, professoressa, sto attento”. “E di cosa stavo parlando?”. Pausa di riflessione. “Dei romani, no?”. Come se una risposta così vaga definisse uno specifico periodo fra centinaia di anni di storia della città eterna e delle sue conquiste. Non lo rimprovero. In gioventù avevo un ragazzo con un tono di voce così monotono da provocarmi una immediata astrazione. “Mi stai ascoltando?” mi chiedeva ad un certo punto. “Come no?” rispondevo. “E che cosa stavo dicendo?”. “Mi hai chiesto se ti stavo ascoltando”. Si arrabbiava ogni volta, ma era più forte di me. Ogni volta che si parla di attenzione mi viene in mente lui. Io non penso di avere una voce soporifera e cerco di rendere il più interessante possibile ciò che spiego, ma, in virtù di questo vissuto, non me la sento di infierire. Tanto avrò modo di appurare la preparazione di Martini alla prossima interrogazione, WhatsApp permettendo. Arriva un messaggio del dirigente.
A quanto pare, a breve ricominceremo con le lezioni in presenza. Dovrò riabituarmi gradatamente. Da domani anticiperò la sveglia di cinque minuti ogni giorno. Mi sforzerò di indossare almeno un paio di jeans e di infilare scarpe diverse dalle pantofole. Che stress. Correggo i compiti. C’è sempre qualcuno che non riesce a condividere il testo, probabilmente inesistente. Per fortuna si può dare la colpa a questi inconcludenti gestori che non riescono a risolvere i problemi di connessione. Arriva la fine della giornata. Saluto e attendo che si scolleghino tutti prima di spegnere. Mi guardo intorno. La tavola è apparecchiata, il pollo cuoce nel forno e il passato di verdura è già a temperatura edibile. “Che si mangia?” chiede mia figlia sedendosi. Annusa l’aria. “Buono!” esclama. Intanto io penso che, fra non molto, torneremo a pasta al burro, mozzarelle e prontocuoci.
(1 – Continua)