Il dialetto non si insegna, si tramanda. Ma si può studiare

Riprendo, dopo le festività, a parlare di un argomento che mi appassiona: il dialetto. Ho sempre sostenuto che, secondo me, il dialetto non si può insegnare, ma si deve tramandare. Questo non vuol dire, però, che non si può studiare; anzi! Perché studiare il dialetto vuol dire scoprire fasi storiche della propria città.
Lo studio di un dialetto è impresa molto difficile, perché fa riferimento sempre ad una società che nel tempo ha modificato, pur senza rendersene conto, gli usi, i costumi e il linguaggio relativo agli stessi per vari motivi: per ragioni storiche, per occupazioni di popoli, per ingenti flussi migratori ed eventuali stanziamenti nel posto, per motivi socio-culturali ed economici.
Ognuno di noi, nel momento stesso in cui esprime i suoi pensieri con la parola (ancor di più se accompagnata dalla gestualità, da intercalari e da locuzioni idiomatiche), apporta il proprio contributo al dialetto di un luogo, soprattutto se c’è un gruppo che concorda sui significati dei termini e li condivide. Per comprendere bene l’evoluzione di significato di una parola attraverso il tempo non possiamo fare a meno di risalire all’etimologia della stessa, alla sua origine e alle cause che hanno contribuito al cambiamento della stessa, espresso anche nella fonetica e dovuto alla cultura della comunità in cui essa si è formata e adoperata. Infatti per l’etimologia di una parola dobbiamo fare sempre ricorso al contesto ambientale in cui si è prodotta, ma per l’evoluzione della fonologia e per la semantica, agli avvenimenti storici e sociali che hanno interessato la città e i suoi abitanti.
Per esempio, la stessa Brindisi che faceva parte della Terra d’Otranto ha nel suo dialetto termini e inflessioni diverse da Lecce, per i diversi insediamenti alternatisi nei secoli e per i suoi rapporti con i popoli del mare.
Le varie occupazioni avvenute nei secoli, però, non hanno disgregato la parlata locale, ma l’hanno arricchita, offrendo prestiti linguistici, pur se spesso deformati dal popolo ed espressi – anche foneticamente – in modo differente nelle tre (secondo me) e non due aree dialettali presenti in città; aree diversamente popolate e corrispondenti a differenti fasce sociali ed economiche: la zona Sciabiche con zona limitrofa marina; la zona centro e S. Pietro degli Schiavoni; la zona campagna della metà del ‘700, intendendo per questa i luoghi Porta Lecce, Porta Mesagne, dentro e fuori le mura, zone – queste ultime – abitate nei secoli passati per lo più da immigrati dai paese vicini, venuti in città in qualità di manodopera richiesta nei lavori della campagna e di artigiani. Questi gruppi, rimasti in Brindisi, si sono integrati nel contesto umano, per cui i loro figli ed eredi hanno prima modificato (magari mantenendo inflessioni e termini) e poi perduto, se non dimenticato, il dialetto di provenienza familiare a favore del brindisino.
In questa evoluzione in senso diacronico il dialetto ha rivelato quindi accezioni diverse nelle varie zone della città, anche per l’educazione ricevuta. La comunicazione pronta e colorita del dialetto che dava subito la comprensione del pensiero espresso, perdeva di immediatezza e di freschezza d’espressione nell’esposizione da parte di chi faceva parte di famiglie abbienti e riceveva un’educazione di tipo ecclesiastico, soprattutto nelle battute precipuamente popolari e a doppio senso.
Tutto questo dal Settecento al primo Novecento, allorquando la lingua nazionale nella base standard si è imposta sulla parlata locale, e ancor più grazie all’introduzione del servizio militare obbligatorio istituito con la nascita del Regno d’Italia (1861) e dell’obbligo scolastico fino alla seconda classe nel 1859 e poi, via via, con le varie leggi, fino alla scuola media unificata del 1962.
Il dialetto ha cominciato ad essere usato sempre meno e, con la morte degli appartenenti alla vecchia generazione, molti termini usati nella quotidianità sono scomparsi quasi del tutto. Penso, per esempio, al termine ghiascioni, il lenzuolo, la cui origine latina è palese (da iaceo= giacere), usato soprattutto nella zona marina e campagna.
Per un errato concetto di cultura all’incontrario, per cui chi non studiava era povero, costretto ad andare a lavorare, rimanere ignorante e parlare il dialetto, si è passati col tempo alla comunicazione in italiano e alla introduzione di parole italiane dialettizzate. Espressioni più esplicative e neologismi si sostituirono ad altri termini di difficile comprensione per chi brindisino non era, soprattutto nei termini che appartengono all’alimentazione: ogliu al posto di uègghiu, ovu per uèu, agnellu al posto di àunu e altri ancora.
Ciò avvenne soprattutto allorquando nella metà degli anni ’50 si impiantò in Brindisi la “Montecatini”, l’industria che diede il via a movimenti migratori opposti, dal settentrione a Brindisi.
Ma dovremmo essere tutti d’accordo che il dialetto non è una lingua differente per valore rispetto alla lingua nazionale, né è una sottolingua, giacché è uno strumento adeguato alle esigenze comunicative locali del gruppo di parlanti che lo usa. E’ verissimo che è importante nella comunicazione usare una lingua standard, ma è altrettanto importante salvaguardare il proprio dialetto che ha, sì, una validità di comunicazione più ristretta perché riguarda un numero di persone più ristretto, ma ha una propria storia e una tradizione letteraria che si arricchisce sempre più nel tempo.

Oggi vi propongo una ricetta con un prodotto di stagione: il carciofo, per il quale in brindisino si usa un termine femminile al singolare e maschile al plurale, la scarciòppula (italianizzato in “la carciofa”) e li scarciòppuli (italianizzato in “le carciofe).
Cerchiamo sempre di comprare i carciofi brindisini, dalla forma a calice e violetti. Sapete? Non formano la barba all’interno.

Carciofi in brodo
Brutettu ti scarciòppuli

Ingredienti: 2-3 carciofi a persona, sedano, prezzemolo, 1 cipolla, aglio, qualche pomodoro, origano (a piacere), olio extravergine d’oliva, sale. Un limone.
Preparazione: pulite i carciofi togliendo le foglie esterne più dure e tagliate la punta, quindi pulite anche i gambi e lavate tutto in acqua e limone. Pulite e lavate gli altri ortaggi. Riempite d’acqua a metà una pentola, sminuzzate il sedano, il prezzemolo, i gambi dei carciofi e lo spicchio d’aglio. Aggiungete i pomodori fatti a pezzi e mettete sul fuoco a cuocere. A metà cottura aggiungete i carciofi, l’origano e aggiustate di sale. Al momento del pranzo, mettere un filo d’olio. Con tale brodetto si usa condire la pasta corta.