Il finto principe e l’assalto a Francavilla e Oria

Nella primavera del 1809 in Puglia, e in buona parte del Mezzogiorno d’Italia, si viveva un grande fermento tumultuoso che vedeva contrapposti i ceti popolari più poveri ai borghesi e ai proletari.
Era il “decennio francese” (1806 – 1815), un periodo di profonde trasformazioni avviate da Giuseppe Bonaparte e portate avanti da Gioacchino Murat, con importanti riforme di modernizzazione politico-istituzionali, sociali ed economiche. Ma esisteva un diffuso e profondo malessere delle popolazioni verso il governo napoleonico, generato dalle profonde divisioni sociali, dalla miseria e dal malessere economico che inasprirono le rivolte, infiammate dalla presenza e dalla partecipazione di “rabbiose torme di banditi” e di galeotti fatti evadere dai bagni penali. I “popolari trambusti” venivano inoltre aizzati da personaggi fedeli a Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina, esiliati in Sicilia, che diffondevano false notizie sul ritorno dei reali sul trono di Napoli per alimentare la speranza e la sicurezza del vicino successo militare; le sommosse venivano rigorosamente domate dalle truppe francesi con crudeli esecuzioni di piazza, ma nuovi focolai di rivolta si riaccendevano dopo alcuni giorni in altri paesi della Terra di Bari e di tutto il Salento, con schiere di “villani” muniti di forconi, zappe, accette e randelli, fortemente decisi ad invadere le zone abitate e a saccheggiare le proprietà della borghesia terriera.
In tale contesto emerse un personaggio temerario, il giovanissimo Antonio Mirabella, che sfruttando la particolare somiglianza con il principe Leopoldo, quindicesimo dei diciassette figli degli ex sovrani, fu spinto a fomentare la “rivoluzione” nelle province pugliesi, dove “spirava una cert’aria di malcontento”.
Il diciannovenne ufficiale dell’esercito borbonico, figlio di un colonnello che nel 1806 aveva seguito la famiglia reale fuggita a Palermo, accolse favorevolmente l’incarico offertogli dalla Corte borbonica, incoraggiato anche dalle fortunate gesta delle “finte altezze reali” che nel 1799, durante la prima occupazione francese, si erano messi a capo di truppe realiste al fianco dell’armata della Santa Fede capeggiata dal cardinale Ruffo nella riconquista del Regno di Napoli. Al giovane oriundo napoletano fu elargita la cospicua somma di millecinquecento ducati in oro e argento, e con la promessa da parte della regina di ulteriori ricompense ed onorari, fu fatto partire dalla Sicilia su una nave britannica. Al termine della lunga navigazione, sbarcò a febbraio in un porto della marina barese, da dove decise di portarsi verso la provincia della Terra d’Otranto, ma la sua avventura non iniziò certamente sotto i migliori auspici, infatti sulla “strada mediterranea” che da Bari giungeva a Taranto fu “denudato e derubato da una banda di ladruncoli” nel bosco nei pressi di Gioia del Colle.
Fu quindi ospitato e fatto lavorare come “zappatore” in una masseria di Grottaglie dove ebbe modo di farsi conoscere e messo in contatto con i rivoluzionari della zona di Francavilla Fontana, all’epoca popolata da oltre dodicimila abitanti, dove il ricco possidente Antonio Basile stava organizzando una sommossa con “molta gente e cinquanta fucili”. Conobbe anche Pietro Cosimo Zaccaria, personaggio animato di un “fanatico settarismo”, che lo convinse a non procrastinare ulteriormente la rivolta, così fu deciso di assaltare Oria la sera del 13 aprile “proclamandosi per il principe Leopoldo, figlio dell’ex re” a capo di “duecentotrenta villici fra oritani e francavillesi” (secondo altre fonti erano oltre quattrocento): i rivoltosi si adunarono fuori dalla città prima di irrompere per le mura e portare in trionfo la giovane “finta altezza” al grido “Viva il Principe Leopoldo! Viva Ferdinando IV!”, annunciando la rivoluzione. Dopo aver assaltato il corpo di guardia e le milizie, che si lasciarono disarmare, “depredarono la casa dei legionari, del ricevitore dei dazi diretti e di altri galantuomini”. Le cronache raccontano di ben otto ore di saccheggi tra le abitazioni della cittadina che a quei tempi contava 5.500 abitanti, durante i quali vennero evitati ferimenti ed uccisioni “per meglio accreditare con la clemenza la regal condizione”. Alle tre della notte i popolani ribelli “armati di zappe, scuri, nodosi bastoni e cattivi fucili”, in preda dall’euforia per la riuscita dall’impresa, decisero di marciare sulla vicina Francavilla, nella speranza di coglierla nel silenzio e nel sonno, ma furono anticipati da un tale Marrazza, benestante oritano di idee liberali, che riuscì a giungere rapidamente nella città degli Imperiali e dare l’allarme dell’imminente aggressione al comandante del 4° Reggimento di Cacciatori a cavallo. I legionari organizzarono la difesa e disposero di lasciare aperte le porte della città in maniera che gli assalitori avessero libero accesso, questi infatti trovarono spalancata la porta del Carmine, una strana novità visti i tempi, che invece di suscitare qualche titubanza o apprensione, non venne considerata rilevante dalle “turbe villerecce, accecate dalla bramosia del bottino ed ebbre dei trionfi di Oria”. A suon di tamburo, strumento usato per incitare alla marcia e all’assalto, questi fecero ingresso nell’abitato che sembrava immerso nella quiete, ma una volta varcata la porta e già pronti al saccheggio, furono sorpresi e colpiti dal fuoco dei soldati appostati alle finestre delle case e travolti dal galoppo sfrenato dello squadrone dei cavalleggeri, chi riusciva ad evitarli veniva inseguito e trucidato dalle sciabolate inflitte dai “dragoni urlanti nella penombra della mattina”. Né seguì un inevitabile massacro, si contarono numerosi cadaveri e feriti gravi sparsi per le strade della città, novanta furono i dissidenti fatti prigionieri, tra loro alcune donne e un sacerdote, chi riuscì a fuggire ebbe la sfortuna di imbattersi nella guardia civica di Ostuni, chiamata con urgenza durante la notte, e da questi uccisi o catturati. Tra i legionari ci fu un solo morto e cinque soldati francesi rimasero feriti durante gli scontri.
Le salme dei ribelli vennero poi sotterrate nella campagne dagli stessi contadini, altri vennero sepolti nelle chiese di Francavilla, ma presto le autorità decisero di riesumare tutti i cadaveri per accertare se anche il “falso regale rampollo” era tra i morti di quel tragico scontro, si doveva trovare un giovanetto di “statura bassa, capelli biondi, occhio bianchiccio, naso grossetto, faccia ovale e carpicata, bocca e mento regolare, carnagione bianca, e dito indice della mano diritta offeso”. In realtà il Mirabella riuscì a fuggire e a trasferirsi errante nelle campagne della provincia tarantina, dove nei primi giorni di giugno si mise nuovamente a capo di alcuni gruppi di rivoluzionari, definiti come “un’accozzaglia inerme di straccioni”, e sempre accompagnato dai clamori inneggianti il principe Leopoldo, non riuscì nell’intento di rivoluzionare alcuni piccoli borghi delle Murge, come Massafra e Gioia del Colle. Evitata ancora una volta la cattura, fu successivamente consegnato alla polizia franco-napoletana e rinchiuso nelle prigioni di Taranto, dove venne sottoposto al giudizio di un tribunale militare: considerato “vittima degli adescamenti della regina e del suo ingenuo, intempestivo mimetismo” fu condannato al patibolo.
Stessa sorte toccò a molti sciagurati popolani seguaci di “Sua Altezza il Brigante”, giustiziati sulle forche erette nella piazza principale di Oria: una vera e propria carneficina, si contarono almeno trecento vittime, martiri della giustizia feroce e sommaria messa in pratica dalla commissione militare governativa.