La lettura di un libro ricevuto in regalo da una cara amica, “Appia”, dello scrittore/giornalista Paolo Rumiz, in cui questo instancabile viandante racconta in maniera precisa ed al tempo stesso leggera e divertente, la sua epica camminata, assieme ad un gruppetto di amici, da Roma a Brindisi seguendo per quanto possibile l’antico ed originario tracciato della Regina Viarum da Roma fino a Brindisi, ha ridestato in me la voglia, in realtà mai sopita, di percorrere, per quanto possibile, “pedibus calcantibus”, antichi itinerari oramai dimenticati.
Fin qui sembrerebbe niente di nuovo, dal momento che da sempre nel tempo libero vado girovagando in ogni dove -con brache robuste, scarpe adatte e l’immancabile macchina fotografica a tracollo, per poter condividere le mie emozioni con gli amici- alla ricerca di quanto di bello dal punto di vista naturalistico, storico e archeologico, il nostro territorio offre e, a dire il vero, ben poche volte sono rimasto deluso, se non per l’incuria con cui, in certi casi, vedo essere trattato ciò che altrove sarebbe sicuramente valorizzato in tutt’altra maniera.
Il sogno che, invece, la lettura di questo libro mi ha fatto tirare fuori dal cassetto, riguarda un modo più sistematico ed anche più coerente dal punto di vista storico, di visitare alcuni di questi luoghi, seguendo, dove possibile, le antiche strade che a piedi, a dorso di mulo o, per i più ricchi e fortunati, a cavallo (e, mi viene da aggiungere, per i più poveri e sfortunati oltre che a piedi anche carichi come a ciucci), hanno percorso i nostri avi per duemila e passa anni e che nell’ultimo secolo sono state soppiantate da un diverso e sicuramente più comodo e veloce sistema viario e modo di viaggiare che ha come fondamento e scopo quello di giungere dal punto di partenza a quello di arrivo nel modo più veloce possibile, ma che ha fatto perdere di vista la possibilità di gustare tutto quanto di bello c’è fra i due punti cardini dell’itinerario.
Rinviando alla bella stagione ed alla concomitanza con un periodo di ferie qualche tappa pugliese da percorrere a piedi sull’antica via Appia, ho dedicato il mio tempo a studiare alcuni itinerari a me già in parte noti per averli casualmente incontrati nel corso di alcune mie scorribande e che già da subito avevano destato la mia curiosità: mi riferisco, in particolare al “Limitone dei Greci”, la quasi leggendaria linea di demarcazione, segnata da un muro di pietre a secco – detto anche “Paritone”, ossia grande parete – in alcuni punti alto anche quattro metri, largo due e lungo, nella sua originaria estensione una ottantina di chilometri, ricompresi fra le provincie salentine di Brindisi, Lecce e Taranto, che nell’antichità (VII secolo dopo Cristo) serviva a delimitare i territori dominati dai bizantini sulla fascia adriatica, per gli antichi romani il mar del nord, da quelli longobardi che si affacciavano sullo Jonio. Secondo alcuni studiosi in alcuni tratti il Limitone parrebbe riprendere la linea di separazione pre-romana fra i territori dei greci di Taras (Tarentum in latino) e quelli della Dodecapoli Messapica, guidata da Uria e Brentesion o Brundisium che dir si voglia.
In ogni caso sembra plausibile che si tratti più che di una opera difensiva (tipo Vallo di Adriano in Inghilterra o la Muraglia Cinese), di una semplice ma netta demarcazione dei confini utilizzata per evitare antipatici contenziosi fra popolazioni che già si guardavano in cagnesco e perché non si sfuggisse al pagamento dei dazi nel portare la merce da una parte all’altra, insomma una sorta di lotta al contrabbando ante litteram!
A prescindere da cosa fosse ed a cosa servisse, una cosa è certa: parallelamente al Limitone correva una antica strada, denominata via ad Lippium che staccandosi all’altezza di Oria dalla via Appia giungeva a Valesium (Torchiarolo), dove si collegava alla via Traiana Calabra che da Brindisi portava ad Otranto e che fu particolarmente frequentata nel periodo bizantino, quando la cittadina sud-salentina cercava di soffiare al capoluogo messapico il ruolo di principale porto verso l’Oriente. Grazie a questa sorta di bretella di collegamento i viaggiatori dell’epoca diretti ad Otranto, bypassando Brindisi, risparmiavano un paio di giorni di cammino, il che non era cosa da poco.
Questa via secondaria che taglia perpendicolarmente il Salento, era molto trafficata già in epoca imperiale, come è dimostrato dai numerosi resti di costruzioni romane risalenti al I secolo dopo Cristo, in alcuni casi, riadattate in epoca bizantina ed è l’itinerario che ho seguito e percorso parzialmente a piedi all’inizio del nuovo anno, autocertificazione alla mano, in questo distinguendomi nettamente dagli antichi viandanti che al posto degli incomprensibili DPCM seguivano i più diretti ed immediati editti imperiali.
Altra differenza di non poco conto, rispetto ai nostri avi, è che il primo tratto, quello di avvicinamento da Brindisi, l’ho percorso, in tutta calma per non perdermi nulla, in auto, avendo scartato l’ipotesi di percorrerla in bici per non creare un incidente diplomatico con mio figlio che rivendica l’uso esclusivo del velocipede a due ruote di famiglia. Come punto di partenza della “camminata” la scelta è ricaduta su località “Malvindi” in agro di Mesagne dove, negli anni ottanta, una campagna di scavi archeologici, poi interrotta, riportò alla luce un antico impianto termale a margine di una zona paludosa, bonificata nel secolo scorso, e dove quando era rigogliosa la foresta oritana, quello che ora appare come un miserrimo canale confinato nel cemento era un vero e proprio fiume da cui le terme prelevavano l’acqua necessaria per il calidarium ed il frigidarium.
Di questi scavi relativamente recenti si conserva traccia e memoria solo perché alcuni reperti riportati alla luce, risalenti ad epoca romana, ma anche messapica, fanno ora bella mostra di sé nella sala Granafei del Castello di Mesagne, in quanto, per carenza di fondi, tutto si è fermato.
Imbocco dal quartiere Sant’Elia la strada per Schiavoni, che si immette sulla vecchia via per Sandonaci e mentre mi stavo godendo la vista dei bei campi di carciofi ed alcuni imponenti alberi di ulivo ben curati, ecco il primo pugno nell’occhio e nello stomaco proveniente dalle “coltivazioni” intensive di pannelli fotovoltaici, che tanto stanno deturpando il nostro paesaggio agreste; ancora qualche chilometro ed incoccio nel cantiere T.A.P. (acronimo di Trans-Adriatic Pipeline, cioè gasdotto trans adriatico) con gli enormi mezzi meccanici fermi per la giornata festiva ed un centinaio di ulivi, sfortunatamente incappati nel suo percorso, orrendamente mozzati e “incellofanati” fino a soffocarli, in attesa di chissà quale destino, timbro e/o benestare burocratico.
Giungo finalmente alla Provinciale 51, quella che da Oria porta a Torchiarolo ed un cartello stradale marrone, di quelli turistici, mi dà la certezza di essere sulla antica via ad Lippium: andando dritto “Limitone dei Greci direzione Mesagne”, voltando a sinistra “Limitone dei Greci” direzione Sandonaci”; vado dritto perché la contrada Malvindi è in agro mesagnese.
Come spesso accade in questi casi il navigatore satellitare mi porta nel nulla, nel senso che giunti ad un rondò stradale da cui è possibile seguire quattro diverse direzioni afferma con voce metallica, che sono giunto alla meta; in qualsiasi direzione mi dirigo, mi avvisa che mi sto allontanando dal punto di arrivo. Scarto subito l’ipotesi che il rondò sia stato costruito sopra le rovine delle antiche terme romane, anche se in Italia tutto è possibile. Anche parcheggiare l’auto risulta impresa difficile dal momento che un serrato nuovo e scintillante guardrail chiude la striscia di asfalto ad ogni possibile via di fuga nei campi, dopo alcuni tentativi nelle varie direzioni, opto per una vialetto di accesso ad una proprietà abbandonata, il cui sbarramento metallico è talmente arrugginito e malmesso da far intendere che sono decenni che nessuno lo apre per accedervi.
Alla mia destra c’è la settecentesca e bianchissima Masseria Malvindi che, perduta la vocazione agricola è rinato a nuova vita, ospitando un moderno e confortevole resort, cambio direzione di 180° e faccio qualche passo verso un viadotto che attraversa un avvallamento che, con occhio ormai esperto, riconosco come l’antico letto di un fiume trasformatosi poi in palude e solo parzialmente bonificato con la cementificazione dei margini del canale, come ce ne sono tanti nel brindisino a partire da Mesagne e fino alle Saline di Punta della Contessa. Dal momento che cerco i resti delle antiche terme, la direzione giusta non può che essere quella del letto del fiume ed il canneto che dalla strada è ben visibile. Dal mio lato non si vede nulla sbucare dal prato e dalle canne, per cui attraverso la strada a e con il sole in faccia supero il guardrail e scendo nella vallata, superando un dislivello di alcuni metri, stando ben attento a dove metto i piedi per non incorrere in una rovinosa caduta.
A volte mi sento una sorta di caricatura di Indiana Jones, l’archeologo avventuriero ideato da George Lucas e lanciato sugli schermi cinematografici di tutto il mondo da Steven Spielberg ed è stato proprio così quando, dopo aver aggirato un fitto canneto, guadato un canale fortunatamente con pochi centimetri di acqua ed attraversato sterpi e rovi che hanno messo a dura prova la robusta tela dei miei pantaloni, mi sono all’improvviso apparsi, in pieno controsole ed in tutta la loro maestosità, i ruderi delle antiche terme romane di Malvindi. All’emozione è seguito il profondo rincrescimento per il fatto che tutto attorno non vi era alcun sentiero o viottolo, nessuna indicazione, nessuna cura, niente di niente ed il nulla condito dal nulla per un monumento lasciato da oltre trent’anni dalla sua scoperta, nel più completo abbandono.
Ci giro attorno, arrampicandomi e scendendo più volte dal terrapieno, per trovare la migliore inquadratura per qualche scatto e mi guardo intorno per cercare di immaginare come potesse apparire agli antichi viandanti: sicuramente le terme, essendo relativamente distanti dai centri abitati, erano inglobate in una stazione di sosta e ristoro molto frequentata all’epoca oppure ad una ricchissima villa rustica che poteva permettersi un tale lusso ed il pensiero corre anche ai tanti centurioni che a partire dal I secolo, ebbero assegnate, al momento del loro congedo, delle terre nel nostro ricco agro, dove sorsero una gran quantità di fattorie dedite alla coltivazione dell’ulivo, della vite, dei cereali oltre che, probabilmente, anche del carciofo. Questi luoghi sono già stati descritti duemila anni fa dal geografo Strabone, proveniente da Amasea, la stessa città turca che tre secoli dopo diede i natali al patrono di Brindisi san Teodoro.
Ultimata la visita alle terme vedo che c’è un passaggio nei rovi, calpestato di fresco, che porta subito in alto, anche se in direzione diversa di 90 gradi rispetto a quella da dove provenivo ma, sembrando decisamente più agevole, la utilizzo per uscire al più presto dalle sterpaglie. In effetti dopo nemmeno cinque minuti sono già sull’asfalto della Provinciale 74, a poca distanza dal rondò con cui si interseca la S.P.51.
Resisto alla tentazione di tornare in macchina e, occhio alla mappa, mi dirigo nuovamente verso la Provinciale 51, allontanandomi da Malvindi in direzione est. Percorro un tratturo laterale, fra la strada asfaltata ed un bel vigneto, che penso possa essere un tratto del percorso originario della via ad Lippium, dal momento che pur avendo piovuto il giorno prima il piede non sprofonda fra la terra e l’erba, segno dell’esistenza di un sottostante selciato ed il che spiega anche la ragione per cui questo tratto, largo alcuni metri e lungo oltre mezzo chilometro, non è coltivato.
Su un prato incolto stazionano alcuni aironi guardabuoi, di un bel bianco candido ed il becco giallo, intenti a cercare cibo ed al mio passaggio, tutti quanti, tranne uno, si allontanano di qualche metro, non essendo certi delle mie intenzioni. Dopo circa mezz’ora di cammino e tre chilometri percorsi, giungo nuovamente all’incrocio con la segnaletica turistica del Limitone dei Greci e svoltando sul sentiero non asfaltato, all’ombra di una lunga fila di giganteschi eucalipti, scelgo la direzione “Sandonaci”, mettendomi alla ricerca dei resti del tempio paleocristiano di San Miserino, risalente al VI secolo dopo Cristo che, secondo alcuni, è la più antica chiesa cristiana esistente nel Salento. Anche in questo caso, si tratta di una costruzione risalente ai primi anni della dominazione romana, poi adattata al nuovo culto diffusosi nell’Impero. Ancora dieci minuti di cammino e, in corrispondenza dell’intersecazione con un itinerario cicloturistico le indicazioni e la cartellonistica segnalano il Tempietto di San Miserino o, per meglio dire quel che resta dell’ importante edificio religioso, a pianta ottagonale al cui interno vi sono quattro nicchie semicircolari con tracce di antichi affreschi. Una cupola al centro e tre navate con volte a botte, rendono davvero particolare questa chiesa. Avvicinandomi lentamente, anche stavolta controsole, intravedo un ammasso di pietrame posto ai suoi lati che mi rendo conto essere parti del tempio crollate e che nessuno ha pensato di mettere al riparo, numerare, catalogare o fare qualsiasi altra cosa per preservarle. A differenza della vicina chiesa, quasi gemella, di San Pietro in Crepacuore (sita nell’agro di Torre Santa Susanna, distante appena dieci chilometri, sullo stesso filo del Limitone e/o della vecchia via ad Lippium e/o della Strada Provinciale 51), nel caso di San Miserino nessuna opera di restauro è stata compiuta, ma solo una blanda messa in sicurezza per preservarla da futuri crolli e nulla più. Mi viene da chiosare: Miserino di nome e di fatto, eppure, anche nello stato in cui si trova, mantiene intatta la sua bellezza e ci vorrebbe davvero poco per valorizzarla e farne un punto nodale anche dal punto di vista turistico.
Si è fatto tardi e l’auto dista quasi un’ora di cammino per cui, a passo veloce e senza più bisogno di consultare la mappa, ripercorro in senso inverso la stessa strada e ritroso. Ad aspettarmi, il gruppetto di aironi guardabuoi con il più spavaldo che resta quasi immobile a guardare me, in mancanza di buoi, mentre gli altri spiccano il volo per allontanarsi di una dozzina di metri.
Sulla via del ritorno in auto rallento solamente in prossimità del cantiere T.A.P. per dare un ultimo sguardo di commiserazione alla nostra terra sacrificata sull’altare del dio denaro.
Come spesso, quasi sempre, accade, il dolce e l’amaro si mescolano in un turbinio di sentimenti contrastanti, quando si tratta di fare il resoconto di ciò che si è parato davanti ai miei occhi nel corso delle mie passeggiate in terra messapica e rifletto su quanto di bello ed importante abbiamo e quanto poco facciamo per salvaguardarlo e valorizzarlo.