L’otto marzo non m’arzo – Racconti al balcone

Settimana di fuoco. Inizia Sanremo. Non sono mai riuscito a capire perché una manifestazione canora dall’altra parte d’Italia finisca per coinvolgere anche noi, anzi tutto il mondo visto che è internazionale. La considero un esempio di gestione ottimale di vocazione turistica. Un intero comune campa su pochi giorni di fuoco. Vi immaginate una cosa del genere a Brindisi? Soprattutto in un anno come questo, senza pubblico, gli artisti potrebbero fare performance itineranti. Sulla scalinata Virgiliana, al castello di mare, persino sulla cima del monumento al marinaio o su una piattaforma galleggiante in mezzo al porto. Oltre che in teatro, naturalmente. Una bella vetrina per la città. Poi, il remo, una affinità con noi ce l’ha. Il festival di San Lorenzo o, se troppo lungo, lo potremmo chiamare SanRino, diminutivo di Teodoro. Assonante, ma senza rischio di plagio. La fibrillazione per l’evento canoro coinvolge la componente femminile della famiglia. Anche quella maschile, in verità. Mio figlio ha un orecchio assoluto, nel senso che riesce a sentire a due porte e tre muri di distanza l’eco della voce dei suoi artisti preferiti, ma non la mia quando mi sgolo reclamando la sua presenza. Rap, trap, kpop. Cantanti et similia dei quali fatico persino a comprendere il nome, figuriamoci il perché l’hanno scelto. E non mi pronuncio sulla qualità melodica, perché sono all’antica. Ho un DNA cantautorale e rockettaro. Mentre mi preparo rassegnato ad essere relegato nello studio, approntando il televisore piccolo di emergenza, le mie donne chiacchierano in cucina. Mi accorgo che passano in maniera disinvolta dalle aspettative canore agli eventi del lunedì successivo. Già, l’otto marzo.
La Festa della Donna dovrebbe onorare, innanzitutto, l’ecletticità delle menti femminili capaci di collegare, senza apparente contraddizione, ipotesi sugli abiti delle star e impegno sociopolitico. Noi siamo più settoriali. O il lavoro o il calcio. Non ci verrebbe mai in mente di trovare una relazione fra il cucchiaio di Totti e una manovra di governo. Anche mia madre era così. Aveva partecipato a tutte le manifestazioni degli anni Settanta, rischiando persino l’arresto un paio di volte. Mio padre l’ha conosciuto in una di queste occasioni. Lei sventolava uno striscione, lui indossava la tenuta antisommossa. Quando gli animi si sono calmati, le ha chiesto il numero di telefono.
Si sono sposati dopo tre mesi, cerimonia civile. Hanno aspettato tre figli e vent’anni per farlo in chiesa. “Dio, se esiste, lo sa che ci amiamo”, rispondeva alla nonna quando la supplicava di regolarizzare la sua posizione sacrilega. Ha ceduto solo quando si era ammalata, ma non ha mai dato soddisfazione alla madre, riconoscendo la guarigione frutto dell’intervento divino per aver finalmente onorato i sacramenti. Ha conservato la vocazione rivoluzionaria, soprattutto quando litiga con mio padre sulle rispettive posizioni politiche, ma non transige sulle riunioni familiari delle feste comandate. Secondo lei, il termine “tavolo di concertazione” è nato proprio dalle domeniche conviviali di famiglie illuminate. Una volta l’ho sentita bisbigliare in confidenza con mia figlia circa l’opportunità di aspettare l’uomo giusto il più a lungo possibile. Ho tirato un sospiro di sollievo, gioendo della sua saggezza. Solo che, poco dopo, ha enumerato i vari mezzi anticoncezionali da usare quando sarà il momento. Inutile dire che non ci ho dormito la notte. L’affetto e l’istinto di protezione di una nonna non hanno niente a che vedere con la gelosia di un padre. Ci sono argomenti per i quali resteremo sempre troppo retrogradi, come la virtù delle nostre bambine. Ora le voci si sono alzate di tono. Non è litigio, mia moglie e mia figlia non lo fanno mai. Piuttosto è mia madre, che non ha perso l’istinto all’urlo di battaglia. Anche quando mi presento allarmato sulla soglia, temendo che i vicini decidano di richiedere l’intervento delle forze dell’ordine, sostengono che la loro è solo una discussione animata. L’argomento del contendere è includere gli uomini al flash mob che si sta organizzando per la Festa della Donna. L’idea è quella di coniugare esigenza di distanziamento e manifestazione. Poche rappresentanti sul lungomare, cartelli con i nomi di tutte le donne virtualmente presenti in collegamento streaming. E fin qui tutto bene. Il punto è che, per rendere più significativo l’evento, c’è la proposta di coinvolgere i figli e compagni. Secondo loro, che sono la punta di diamante del comitato organizzatore, se fossero gli uomini a presentarsi in esterno ci sarebbe molto più impatto emotivo.
Mia figlia si reca in trasferta nella camera del fratello. Non ho dubbi su quello che dirà. Per lui, ogni scusa è buona per evitare la scuola. Anche congelarsi con la tramontana marzolina. Poi farà il figo con le compagne di classe. Ma io? Non mi hanno chiesto ancora niente, ma so che mi danno per scontato. Che figura faccio con i colleghi in studio? Non posso neanche tirare fuori la scusa degli impegni. I vantaggi del lavoro autonomo sono quelli di poter gestire gli orari. Siamo tutti maschi, di quelli spacconi in ufficio e agnellini in casa. Provo a visualizzarmi. Cappello di lana, occhiali scuri, mascherina, giubbotto, guanti. Così potrei scongiurare il freddo. Magari sperare di non essere riconosciuto. E se intervistano proprio me? Sono certo che “le organizzatrici” mi segnaleranno ai cronisti presenti. Ho qualche giorno di tempo per pensarci. Intanto annuisco entusiasta alla prospettiva e dichiaro che farò un intervento sull’importanza di Sanremo nella cultura femminista. Mio figlio dà un segno di vita esclamando che così spacco sicuro. Intanto io medito sul piano B, una febbre, un mal di testa, un attacco di colite. L’otto marzo non m’arzo.