Se i trulli di Alberobello sono stati, giustamente, inseriti nel patrimonio dell’umanità dall’UNESCO e, per la tecnica della muratura a secco, la struttura autoportante e l’assenza di ogni genere di legante per la loro costruzione, sono considerati i precursori della bioedilizia; se a Costa Ripagnola, fra Monopoli e Polignano, viene riconosciuto un importante valore paesaggistico e naturalistico in virtù delle costruzioni circolari in pietra, tipiche del paesaggio rurale, circondate da muretti a secco; se nel leccese si sta cercando di dare il giusto riconoscimento alle pajare, arrivando a chiamarli trulli salentini, per competere con quelli già universalmente noti della Valle d’Itria, non si comprende perché non venga data la rilevanza che meritano alle “casedde” presenti in alcune zone del brindisino che sono, come le loro parenti più note, delle costruzioni rurali a pianta circolare, realizzate con la tecnica delle pietre a secco, la cui origine si perde nella notte dei tempi.
Va detto che anche le “linee guida per la tutela, il restauro e gli interventi sulle strutture in pietra a secco della Puglia” di cui al Piano Paesaggistico Territoriale Regionale, che considera questo genere di costruzioni come componente fondamentale del paesaggio pugliese, nel suo schema grafico, ignora completamente i 4/5 della provincia di Brindisi, inserendovi i soli territori di Ceglie, Francavilla, Cisternino, Fasano ed Ostuni.
Anche per questo ritenevo questo tipo di costruzioni rurali più vicine a Brindisi, come un qualcosa di isolato e quasi avulso dal nostro territorio, un po’ come se fossero sorte casualmente, magari copiando la tecnica di territori vicini. E questo fino a quando, nel corso di una passeggiata con l’amico Roberto Romeo, anche egli appassionato della cultura e della storia del nostro territorio, alla scoperta della Cripta di San Nicola, nei pressi di Serranova (una borgata fra Brindisi, San Vito dei Normanni e Carovigno), ci siamo imbattuti in gran numero di esse, quasi tutte in ottime condizioni, nonostante alcune stiano lì da centinaia e centinaia di anni.
Ultimata la visita alla suggestiva chiesa rupestre, in parte scavata nella roccia e in parte costruita con massi calcarei, in cui si può ammirare un affresco risalente ad oltre mille anni addietro che raffigura il Santo di Myra, siccome il tempo non prometteva nulla di buono e stava per venir giù acqua a catinelle, faccio ritorno in città con il proposito di approfondire, appena possibile, nel corso
di una nuova e mirata escursione, quello che a prima vista appariva quasi un antico villaggio turistico fatto di tipiche costruzioni circolari in pietra, che spuntavano, è il caso di dire, come massi fra gli ulivi secolari, circondati da muretti a secco fatti dello stesso materiale e dalle stesse mani, che trasudavano, come loro, secoli di storia.
E così, nella prima giornata priva di impegni lavorativi, mi riporto sulla strada che dalla Statale 16 conduce verso Serranova e, superata una cappella votiva poco lontana dalla Masseria Grottamiranda, lascio l’auto ai margini della Provinciale in uno spiazzo all’altezza della Masseria Badessa, da dove, al di là del muro a secco, è ancora possibile ammirare il tracciato di una antica via di epoca romana, abbastanza larga da ipotizzare che si potessero incrociare due carri, lunga diverse centinaia di metri, che porta all’ingresso della citata masseria, una delle più belle e importanti del territorio.
Preferisco proseguire a piedi per non perdermi nulla del paesaggio rurale di una terra baciata dal sole e accarezzata dalla brezza che giunge dal mare.
Oltre ai bellissimi fondi olivetati è possibile ammirare, a bordo strada, stupendi esemplari di Carrubo, alcuni dei quali dal tronco ancora più nodoso e sofferto dei pur nodosi e contorti ulivi.
Imboccato lo stradone interpoderale che porta alla contrada San Nicola è tutto un seguire di muretti a secco ed ingressi di residenze di campagna, alcune ricavate dalla ristrutturazione di case rurali e, dietro alcune cancellate, si cominciano a vedere le prime casedde che, inglobate nei giardini ed intonacate di fresco, hanno, a mio avviso, perso gran parte del loro fascino misterioso.
Man mano che avanzo, con passo cadenzato, quasi a voler tenere un ritmo costante nella camminata, superata una vecchia edicola votiva scavata in una colonna di tufo, con una immagine scolorita della Santissima Vergine, ed una statuetta dei Santi Medici Cosimo e Damiano, i più gettonati nelle nostre campagne, mi ritrovo al cospetto di alcune casedde prive di porte e facilmente raggiungibili.
La prima che visito è particolarmente grande, intonacata esternamente, probabilmente solo a fini estetici, dal momento che lo spessore superiore al metro delle pareti in pietra la rende impermeabile ed indifferente ad ogni tipo di intemperie ed anche a prova di qualsivoglia evento sismico. Il suo interno è composto da un unico grande vano circolare con un accenno di incavatura in cui gli antichi abitanti posizionavano il pagliericcio dove riposare ed alcune nicchie ricavate tra le pietre, utilizzate per riporre oggetti ed utensili. Per ciò che concerne i servizi igienici, c’è tanta campagna lì attorno…
Scattata qualche foto, proseguo verso la Cripta di San Nicola che visito, nuovamente, non solo per non far torto al Santo ma anche perché realmente attratto da quella antica immagine e provo ad immaginare come era la vita del monaco che l’aveva dipinta intorno al IX secolo e della sua piccola comunità monastica giunta dall’oriente bizantino quando, per sfuggire alla persecuzione iconoclasta, diverse centinaia di questi religiosi si rifugiarono nella penisola salentina, adattandosi a a vivere in luoghi solitari come lo sono le grotte naturali o che loro stessi scavarono nella roccia e, grazie alla benevolenza nei loro confronti delle popolazioni locali ed alla protezione dei signorotti del luogo, continuarono a praticare il loro culto verso le immagini sacre con cui abbellivano le grotte. Non dobbiamo dimenticare che il culto di San Nicola fu importato nel mondo occidentale proprio grazie a questi religiosi fuggiti dall’oriente.
Non si conosce con esattezza l’epoca in cui si sono cominciate a costruire queste casedde, ma, certamente già vi erano in epoca bizantina ed erano edificate con le pietre che si estraevano dissodando i terreni agricoli e con parte di esse si alzavano i muretti a secco con cui si delimitavano le proprietà: in una civiltà contadina, povera ma laboriosa come era quella nostra, nulla andava sprecato e tutto, fino all’ultima chianca, veniva utilizzato.
Va detto, ad onor del vero, ma anche con malcelato orgoglio, che già i nostri antichi progenitori, i Messapi, erano maestri dell’arte della costruzione a secco, invidiata dagli stessi dominatori romani, per cui non c’è nulla di strano che questa arte sia rimasta viva nelle nostre aree rurali.
Avvicinandomi alle casedde di questa contrada, noto che alcune sono assai vicine tra loro, al punto da far pensare che la chiesa rupestre avesse fatto da attrattiva e spinto diverse famiglie a vivere attorno al luogo sacro; provo, allora, ad immaginare, sfruttando anche le mie reminescenze storiche e le mie letture sull’argomento, anche come potesse essere la vita delle tante generazioni di contadini che in quelle costruzioni rurali vi hanno abitato nel corso dei secoli e fino a non molti decenni fa: dai servi della gleba fino ai mezzadri, passando dai coloni e dai braccianti.
Di sicuro le casedde non erano state concepite come luogo per le vacanze estive, ma per ancorare ancora di più alla terra i contadini: in tempi in cui le giornate lavorative erano scandite dalla nascita e dal tramonto del sole, stare già nel campo da coltivare al momento del sorgere del sole, anziché nel paese distante magari un’ora di cammino, significava potersi alzare più tardi ed andare a riposare più presto.
Col tempo questa funzione è andata via via scemando e le casedde furono abbandonate, oppure utilizzate per ricoverare attrezzi o animali o, in alcuni casi, per essere riadattate a vere e proprie abitazioni, come è, probabilmente il caso, di quelle di contrada San Nicola
Ciò si nota particolarmente in una, un po’ più defilata rispetto alle altre, su cui sono ancora vistose le tracce cromatiche rosse con cui era stata dipinta per abbellirla, lo stesso colore delle colonne di accesso; la sua ampiezza, i sedili in pietra posti all’esterno a mo di emiciclo, la pavimentazione e, perfino, una dependance lì vicino, con un forno in pietra, rendono evidente il suo adattamento, già dal XIX secolo, a residenza estiva di gente legata alla terra, ma oramai benestante.
All’amico Carlo Sciarra, stimato architetto appassionato di storia e cultura locale, ho chiesto il suo pensiero su questo insieme di costruzioni.
“Nel nostro caso si tratta di casedde; la distinzione avviene con la individuazione del suo impianto tipologico, se a pianta quadrangolare o circolare, e dalla struttura di copertura a cupola o a cono. Le costruzioni a trullo hanno la loro massima espressione in quelle, ormai scolpite nell’immaginario collettivo, di Alberobello, ma esse non sono che il risultato finale di una lunga evoluzione, la cui maturazione è avvenuta grazie a secoli di sperimentazione nelle campagne della Puglia centro-meridionale, zona di maggiore diffusione di tale tipologia architettonica. Essendo il prodotto di una società agricola, è interessante prendere in considerazione l’influenza di due fattori decisivi: la distribuzione della popolazione e i tipi delle colture. Entrambi sono condizionati dalla particolare natura geologica del suolo pugliese,che possiamo definire rocciosa e contraddistingue un po’ tutta la regione; questa quasi uniformità ha generato un denominatore comune nei sistemi realizzativi dei manufatti rurali. Inoltre la particolare conformazione del terreno influisce sulla coltura: aree adatte solo a colture arboree come viti, ulivi e mandorli, che impegnano il contadino solo per alcuni periodi dell’anno e zone condotte a seminativo, per cui si rendeva necessaria una presenza costante e questa differenza influisce sulla edilizia rurale. Nel primo caso il tipo di costruzione presente in campagna è il trullo-rifugio, in cui il contadino può riposarsi durante il giorno, riporre gli attrezzi agricoli o il raccolto, in cui può trattenersi durante il periodo dei lavori più intensi. Mentre nel secondo caso le esigenze sono diverse e danno vita ad un edificio più completo, dotato di un maggior numero di ambienti, da utilizzare anche come stalla e deposito”.
Ritornato all’auto, distante un’ora di cammino, non mi dirigo verso la Statale 16 ma allungo verso il mare e, oltrepassato il borgo di Serranova, mi fermo al bivio che conduce al Castello, appartenuto fino a pochi anni addietro ai principi Dentice di Frasso, per far visita al famoso Ulivo del Crocifisso, un albero monumentale, prossimo ai mille anni, posto a bordo della strada, intorno al cui nome fioccano diverse leggende. Quella “ufficiale” narra di una notte buia e tempestosa di trecento anni fa e di un bastimento ormai ostaggio dei marosi e prossimo a naufragare; le ferventi preghiere del capitano e dell’intero equipaggio rivolte al Cristo ligneo crocifisso che era sulla nave ottennero il loro effetto e nonostante il naufragio sugli scogli, gli uomini furono tutti quanti salvi. Il gruppo di naufragi si diresse verso il più vicino paese e, per strada, sistemarono il sacro legno all’interno dell’incavo di un grosso ulivo. Il suo successivo ritrovamento nel corso di una processione, apparve alla popolazione locale come un ulteriore evento miracoloso e da allora il Crocifisso è custodito presso la cappella settecentesca del Castello di Serranova ed ancor oggi la popolazione del contado e dei paesi vicini vi si reca in pellegrinaggio il 3 maggio di ogni anno.
Ma quello del Crocifisso non è l’unico ulivo monumentale della zona, anzi mi piace affermare che ogni singolo albero piantato ai margini della strada che da Serranova scende verso il mare è un monumento vivente fatto di legno rugoso lacerato da antiche ferite, pervaso da linfa vitale, le cui foglie argentee sono mosse dal vento e le radici profonde affondano nella rossa terra normanna, sempre pronte a generare un frutto che, fin dall’antichità, è stato considerato un dono del Cielo.