Fine pena mai per Massimo Pasimeni, 9 anni ad Ercole Penna. Stesso reato, ma richieste radicalmente diverse per i due boss della Sacra corona unita mesagnese, a processo per l’omicidio del 62enne Giancarlo Salati, alias “Menzarecchia”, massacrato a bastonate nella sua casa a Mesagne il 16 giugno del 2009 e morto poche ore dopo le ferite riportate.
Questa mattina i pubblici ministeri Valeria Farina Valaori e Alberto Santacatterina hanno formulato le loro richieste di condanna a carico dei due imputati, al termine di una lunga requisitoria.
Per oltre tre ore i due sostituti della Procura della Repubblica di Brindisi hanno svolto il nastro delle accuse, ripercorrendo le fasi di quella brutale spedizione punitiva, tracciando ruoli e incarichi dei soggetti coinvolti, illustrando le prove raccolte, rimettendo in fila le dichiarazioni inanellate dai pentiti. Su tutte, quelle dello stesso imputato Ercole Penna, nella doppia veste di accusatore e accusato. Sono state proprio le parole del collaboratore di giustizia a fornire agli inquirenti i mattoni con cui edificare, strato dopo strato, il castello probatorio che inchioda, nella loro ricostruzione, mandanti ed esecutori del delitto.
Per quell’omicidio il gup del tribunale di Lecce ha già condannato a 30 anni di reclusione Francesco Gravina e Vito Stano, e a 10 anni il pentito Cosimo Giovanni Guarini.
Ma i tre, secondo l’accusa, quella notte non si mossero in autonomia. Uccisero Salati perché altri avevano dato quell’ordine. E nella scala gerarchica della logica mafiosa, solo chi è ai vertici di un clan ha il potere di emettere sentenze di condanna capitale.
Ercole Penna e Massimo Pasimeni sono descritti da diverse sentenze come i boss del clan dei mesagnesi, assieme ad Antonio Vitale e Daniele Vicientino. E furono loro a decretare la morte di Salati, reo d’aver intrattenuto una relazione sentimentale con una minorenne. Una colpa da sanzionare con l’estrema ammenda, così come sancito “codice penale” di ogni mafia. Ma non c’era solo questo. Salati andava ucciso, perché occorreva un agnello da immolare sull’altare dell’immagine sociale della rinata Sacra corona unita. Bisognava lanciare un messaggio chiaro e inequivocabile alla collettività: la Scu c’era, con le sue leggi, i suoi giudici, le sue sentenze e le sue squadre della morte pronte ad applicarle a un cenno dei capi.
Pasimeni ha sempre respinto ogni accusa: “Non avevo alcun motivo per volere la sua morte – ha spiegato in aula il 24 giugno scorso – Ero amico di Carlo (Giancarlo Salati, ndr). Sono cresciuto con lui, sono stato al suo funerale e al fianco dei figli dopo la sua morte. Io con quella vita ho voluto chiudere dopo i 12 anni di carcere che mi sono fatto. Appena uscito di galera sono andato a lavorare al cimitero per 700 euro al mese, e ho detto a Ercole Penna di fare altrettanto”.
I pentiti hanno anche parlato di dissapori legati a una vecchia storia che l’attuale compagna di Pasimeni ebbe con Giancarlo Salati. Ma Pasimeni ha respinto anche questa ricostruzione: “Se avessi voluto ucciderlo per questa questione lo avrei fatto vent’anni fa, non di certo adesso”.
Smettendo i panni del boss sanguinario e indossando quelli di pentito, Ercole Penna ha invece ammesso di aver ordinato con Pasimeni l’omicidio di Salati. E per questo la Procura ha chiesto di condannare entrambi: ergastolo per “Piccolo dente” e nove anni al collaboratore di giustizia, da “premiare” proprio per la sua scelta di aiutare la giustizia a compiere il suo corso.
La parola passa ora agli avvocati Marcello Falcone e Rosanna Saracino per le arringhe difensive. Poi, il 12 dicembre, la sentenza.