di Gianmarco Di Napoli
Aveva preso il sopravvento sulla leucemia ed era pronta a riprendere il suo posto a casa, accanto al marito, e al lavoro. Tanto che ad agosto aveva scritto un post dolcissimo su Facebook: “Vorrei ringraziare tutti voi, Tutti coloro che hanno creduto in me, che mi hanno cosi insistentemente sostenuta, e mai lasciata sola. Un grazie speciale voglio farlo ai miei figli lontani ma sempre con me, a mio marito quell’uomo fantastico che ho sposato, e che da quel giorno non mi ha mai lasciata un secondo”.
Ma Ines Barba, 54 anni, brillante dipendente degli uffici Abaco, se n’è andata venerdì scorso. Una banale infezione intestinale (l’enterocolite), per la quale è sufficiente un semplice trattamento antibiotico. Ma reso inutile perché, poche settimane prima, la donna era stata bombardata di medicinali perché, nel reparto di Ematologia, aveva contratto il batterio “Klebsiella”.
Eccola la parola maledetta, che emerge per la prima volta da un referto medico dell’ospedale “Perrino” di Brindisi: sono stati gli stessi medici di Ematologia, dimettendo una prima volta Ines, a indicare la presenza dell’infezione.
Ora quella cartella clinica pare sia tra le 37 sequestrate dai carabinieri dei Nas, coordinati dal pm Milto De Nozza. Ma la famiglia ha deciso comunque di presentare denuncia al posto di polizia del “Perrino”, venerdì stesso, il giorno della morte.
“Non vogliamo vendetta, lo stiamo facendo per mia moglie e per salvare altri ammalati, perché non si deve più morire così nell’ospedale di Brindisi”: Salvatore Rotundo non parla con rabbia, ma ha la voce ferma e la certezza che Ines stava vincendo la sua battaglia e che la causa della sua morte sia stata proprio quel batterio maledetto, la “Klebsiella”.
La vita della donna, impiegata negli uffici di riscossione tributi Abaco di via Bastioni, mamma di tre ragazzi (Fabio, Luca e Simone) e nonna, cambia all’improvviso il 29 maggio quando si sveglia con un intorpidimento alle labbra. Al pronto soccorso i primi accertamenti non producono effetti ma i medici non se la sentono di dimetterla: la sottopongono ad altre analisi e in Ematologia il giorno successivo scoprono che si tratta di leucemia linfoblastica, un tumore più frequente in età pediatrica fino ad essere minima dopo i 29 anni. I medici non sono drastici: la mortalià è del 60 per cento, dunque ci sono buoni margini per combattere.
Ines viene sottoposta subito a un primo ciclo di chemioterapia secondo il protocollo internazionale. Tra chemio e degenza successiva per l’assorbimento dei farmaci è prevista una permanenza in ospedale di 25 giorni, ma la donna ci resterà per un mese e mezzo. Durante la terapia infatti i medici informano che, nonostante sia in regime di isolamento (i familiari possono vederla solo attraverso un vetro) è stata infettata dalla “Klebsiella pneumoniae”. Al marito che chiede spiegazioni, i sanitari spiegano che si tratta di un batterio che abbiamo nel nostro corpo e che probabilmente si è mutato nell’organismo della donna a causa della chemio. O che forse il batterio è stato infettato “per contatto”.
L’insorgere dell’infezione, che sfocia in setticemia, fa passare la leucemia in secondo piano, Ines viene sottoposta a un trattamento con quattro diversi antibiotici somministrati contemporaneamente. “L’abbiamo presa per i capelli”, comunicano i medici ai congiunti della donna l’8 agosto. L’incubo sembra finito, anche perché pure la leucemia è in remissione. Ines può tornare a casa per una decina di giorni. Le serve anche per rimettersi psicologicamente.
Il 18 agosto rientra in ospedale per il secondo ciclo. Procede tutto bene, sia la chemio che la risposta alla malattia. Ma negli ultimi giorni accade un episodio al quale i familiari non danno troppo peso e che però, alla luce dell’indagine giudiziaria in corso, pare avere tutto un altro significato: “A fine agosto, per due giorni, mia moglie fu spostata dall’isolamento e trasferita in corsia. Ci dissero che gli impianti di condizionamento dell’ospedale erano fuori uso”.
In effetti per due giorni, nonostante il caldo torrido di quei giorni, i reparti di degenza del Perrino rimangono privi di aria climatizzata. Probabilmente non si tratta di una rottura ma di controlli sugli impianti dopo le denunce di morti sospette e le indagini condotte dai Nas dei carabinieri sulla presenza della Klebsiella. Il batterio killer infatti spesso si diffonde negli ambienti attraverso gli impianti di climatizzazione quando i filtri non sono puliti.
Comunque Ines il 10 settembre viene dimessa e lascia l’ospedale per qualche giorno. Il 19 settembre lascia casa per l’ultima volta. Eppure l’atmosfera è serena, la famiglia l’ha già messa in lista per un trapianto di midollo a Bologna. In ospedale le trovano una fistola e decidono di curarla con antibiotici prima di iniziare la chemio. In effetti dopo una decina di giorni la fistola è innocua e inizia la terapia contro la leucemia.
Ma alla fine del mese la situazione precipita. Ines ha una forte reazione cutanea, simile all’orticaria: “Sembrava avesse preso una fiammata”, ricorda il marito. “Aveva il viso squamato, prurito ovunque”.
I medici pensano a un’allergia, tanto che le tolgono anche i pochi effetti personali che contengono materiale a rischio. Ma le condizioni della donna peggiorano. Il marito e i figli vengono messi al corrente della situazione disperata: una enterocolite provocata dalle sue stesse feci, una banale infezione alla quale però non si riesce a fare fronte perché ormai lei è immune agli antibiotici dopo il bombardamento cui era stata sottoposta per la Klebsiella.
“Quel batterio ha aperto una strada che ha provocato tutto ciò che è accaduto”, spiega il marito. “Ogni antibiotico era inutile”.
Nella notte tra martedì e mercoledì scorsi Ines è entrata in coma. E venerdì, senza mai riprendere conoscenza, è spirata.
“Noi non abbiamo nulla contro i medici e gli infermieri”, chiarisce Fabio, il figlio maggiore della donna. “Sono stati scrupolosi e professionali, ma la struttura nella quale operano non è all’altezza. Abbiamo perso nostra madre proprio nel momento in cui il peggio sembrava fosse passato”.
“Non ci interessano risarcimenti o condanne”, aggiunge Salvatore Rotundo. “Se avessimo saputo che al Perrino c’era una situazione di questo genere avremmo portato mia moglie fuori. E non può essere così, questa tragedia non deve capitare ad altre famiglie. La nostra battaglia ora, con la morte nel cuore, la facciamo per evitare che questo si ripeta. Anche se mia moglie era in isolamento, nel reparto di Ematologia, essendoci sempre qualcuno di noi dietro quel vetro ci siamo resi conto di come i princìpi di igiene in un posto che dovrebbe essere immacolato non siano rispettati. C’è troppa superficialità. E poi quei climatizzatori spenti all’improvviso dicono tante cose. Speriamo che Ines sia l’ultima”.