Clelia non poteva vedere che l’ascensore non c’era: il dolore «imploso» dei genitori

di GIANMARCO DI NAPOLI per il7 Magazine

L’ultima cosa che Clelia ha visto è stata la statuetta in pietra bianca della Madonna, incorniciata in un piccola nicchia a forma di arco. Tutt’intorno piante e fiori a riempire mezzo pianerottolo. Capita spesso, soprattutto nelle palazzine popolari, che i pianerottoli diventino stanze aggiuntive per appartamenti non proprio giganteschi. Il pianerottolo per questo è sempre arredato con amore, perché è il luogo dell’accoglienza, dell’incontro. E’ casa.
La porta dell’ascensore, al quarto piano della palazzina Arca al civico 140 di via Piave, è distante mezzo metro da quella d’ingresso di casa Ditano. Una piccola “L” in cui, se apri l’ascensore, la porta finisce quasi contro quella dell’appartamento. In mezzo c’è solo lo spazio per un portaombrelli trasformato in fioriera.
Domenica notte Clelia, dopo aver trascorso la serata con la solita comitiva di amici, è salita a casa. Doveva andare in bagno, lasciare la borsetta e scendere di nuovo per scambiare quattro chiacchiere. Da lunedì avrebbe ripreso a lavorare: le pulizie in alcuni B&B, mestiere faticoso per una ragazzina di 25 anni. Ma stava mettendo i soldi da parte per prendere finalmente la patente.
E’ salita con l’ascensore, probabilmente non ha neanche chiuso la porta di casa, doveva andare via subito. Quando è uscita, ha tirato dietro di sé la maniglia e ha richiuso, ritrovandosi sul pianerottolo buio. L’interruttore della luce delle scale si trova proprio accanto alla statuetta della Madonna, un metro oltre l’ascensore che invece era subito sulla sua sinistra. A memoria ha trovato la maniglia dell’ascensore e questo si è aperto mentre lei era spalle all’ingresso di casa, senza alcuna visuale sulla cabina. Ha aggirato la porta in metallo ed è entrata alla cieca. Non ha avuto neanche il tempo di gridare.
I suoi amici, da sotto, non vedendola scendere, le hanno inviato messaggi, l’hanno chiamata al telefono. Ma lei non rispondeva né visualizzava. Hanno pensato che si fosse addormentata, magari l’hanno pure giudicata male per non averli avvisati. Ma non si sono azzardati a suonare a casa: era tardi, di sicuro i genitori dormivano. Sono andati tutti via.
Invece Clelia era sul tetto della cabina dell’ascensore, bloccato al primo piano. Un volo di oltre dieci metri che dura poco più di un secondo, neanche il tempo di capire. Lei e il suo telefonino.
Alle tre del mattino una signora che abita al terzo piano ha chiamato l’ascensore per scendere: va a faticare in campagna. Ma l’ascensore non è arrivato, come capitava spesso, ed è scesa a piedi. Alle sei del mattino la mamma di Clelia, Giusy Angiulli è uscita per portare giù la spazzatura: ha aperto la porta dell’ascensore ma era giorno, ha visto che la cabina non c’era e si è fermata in tempo.
Giusy ha chiamato il marito Giuseppe che era ancora a letto: “Mi ha detto; l’ascensore non c’è più. Sono andato a vedere, si vedevano tutti i fili tiranti, ho cominciato a mettere mani, ho pensato che potesse essere il bottone”, racconta il papà di Clelia. “Il vuoto c’era. Mia moglie intanto si era accorta che nostra figlia non era rientrata, l’ha chiamata al suo telefono e l’ho sentito squillare sotto, nell’ascensore. Sono sceso, al primo piano ho aperto la porta ma Clelia non era nella cabina. Ho chiesto a mia moglie di fare un altro squillo. L’ho sentito di nuovo suonare e ho pensato: è successo qualcosa”.
Il papà di Clelia ha chiamato la ditta che si occupa dell’assistenza per l’ascensore e al tecnico, giunto una mezz’ora dopo, ci è voluto poco per rendersi conto di quello che era accaduto: “Chiamate i vigili del fuoco”, ha detto al padre. Solo questo.
Il telefono di Clelia continua a squillare, accanto al corpo, per ore. Soprattutto quando il suo nome compare nelle notizie diffuse di giornali on line. Gli amici non vogliono crederci e continuano a chiamarla. Sino a quando nella tarda mattinata di lunedì, completati, i rilievi, il suo corpo viene recuperato dai vigili del fuoco.
Il dolore davanti a tragedie di questo genere quasi sempre esplode, ma in taluni casi implode. Nella maggior parte dei casi i genitori e i parenti più stretti acquisiscono subito la consapevolezza di ciò che è accaduto e si assiste a scene strazianti, che neanche un cronista che ne ha viste e raccontate troppe, riesce ancora a farsi scivolare addosso. Non c’è dolore più grande che sopravvivere ai figli.
Alcune volte però accade qualcosa di ancora più doloroso: chi è stato colpito da un lutto così terribile non ha subito piena consapevolezza di ciò che è accaduto. E non perché nutra sentimenti meno profondi, tutt’altro.
E’ quello che si respira davanti alla palazzina di via Piave: non piange nessuno. La mamma di Clelia è una maschera immobile, paralizzata, priva di qualsiasi espressione. Il papà Giuseppe sembra raccontare tutto con distacco. Come se parlasse di un’ estranea. E verrebbe voglia di stringerli tutti e due, papà e mamma, di abbracciarli, sentendo come il dolore sia ancora prigioniero all’interno della loro anima ma presto esploderà in tutta la sua forza e sarà ancora più dilaniante.
E’ come se aspettassesro che Clelia potesse uscire da un momento da quell’ascensore, sorridente con il suo telefonino.
Era figlia unica e cocca dei suoi genitori. Non sono molte le ragazze di quell’età che nella copertina della loro pagina Facebook pubblicano la foto con la mamma, con cui scambiava teneri messaggi pubblici sotto ogni post. Ma soprattutto era la cocca di papà Giuseppe: sotto la foto che la ritrae neonata, in braccio a lui, scrive “Tuo padre è quell’uomo che ti ha insegnato ad andare in bicicletta tenendoti il sellino da dietro per non farti cadere. È quell’uomo del quale ti ricordi solo all’ultimo di farti una foto con lui ai tuoi compleanni. È quell’uomo che quando trovi una sua foto da giovane, ti sembra fichissimo e ti dispiace non averlo potuto conoscere allora quando faceva lo scemo con tua mamma”.
In questo limbo terribile che presto diventerà un inferno, i genitori di Clelia hanno diritto ad avere giustizia perché questo dramma non può essere liquidato con la parola “incidente”. Un ascensore, anche se costruito negli anni Ottanta come quello delle palazzine popolari di via Piave, non può aprirsi se che la cabina non si trovi su quel piano. Esistono sistemi di sicurezza collaudati che lo impediscono. Se quella porta si è aperta, qualcuno ne ha evidentemente la responsabilità. E va individuato.
A coordinare le indagini c’è uno dei più capaci ed esperti magistrati brindisini, Giuseppe De Nozza. Spetta a lui, con il supporto dei carabinieri, il compito di ristabilire la verità. Per Clelia, per i genitori, per tutti.