di Marina Poci per il7 Magazine
In queste settimane di rivelazioni clamorose sui giovani calciatori Sandro Tonali, Nicolò Fagioli, Nicolò Zaniolo, accusati di aver scommesso grosse cifre su piattaforme illegali (laddove il Codice della Giustizia Sportiva vieta le scommesse ai tesserati), il timore che si tratti soltanto della punta di un iceberg e che la ludopatia ormai sia considerata una dipendenza sempre più presente tra i giovanissimi, che possono accedere con grandissima facilità ai siti di scommesse (anche i legali) semplicemente con lo smartphone dalla loro stanzetta, diventa concreto.
Ma costa sta succedendo ai nostri ragazzi, persino a quelli che hanno già fama e ricchezza, piegati alla dipendenza dalle scommesse, patologia che fino a qualche tempo fa riguardava tutt’altra tipologia di vittime?
I mental coach, che spesso si trovano ad essere le persone educativamente e psicologicamente più vicine agli atleti, sono fortemente ricercati. Il loro lavoro consiste nel facilitare, sostenere e aiutare le persone che vi si rivolgono a individuare obiettivi e raggiungerli, superare stati di blocco, fare delle scelte, ottimizzare le performance, affrontare ostacoli o prove e migliorare la propria vita. Lavorano negli ambiti più diversi e alla loro professionalità fanno appello atleti, studenti, imprenditori, in generale persone che vivono una situazione di vita complicata e hanno bisogno di ritrovare la propria strada, ma anche aziende o società sportive.
Salvatore Barbarossa, brindisino, è psicologo e dal 2009 si occupa di bambini, adolescenti, adulti e nuclei familiari, seguendoli in percorsi educativi e attuando attività di contrasto alla povertà educativa.
Lavora presso il Cag, il centro di aggregazione giovanile facente parte della rete dei servizi sociali del Comune di Brindisi, sito nel difficile quartiere Paradiso. Ma ha collaborato anche con il Ciai (C entro italiano aiuti all’infanzia) e con l’organizzazione “Save the childern”, l’organizzazione internazionale indipendente attiva dal 1919 in 120 Paesi con lo scopo di migliorare la vita dei bambini.
Conosce gli atleti perché li aiuta nella promozione dell’autoefficacia e nel raggiungimento dell’autonomia personale; conosce il fenomeno della ludopatia, anche giovanile , perché da anni ne osserva l’evoluzione. Ne parla con semplicità e con fare propositivo, senza i toni moraleggianti e inutilmente didascalici che in questi giorni si sono rincorsi sui mezzi di comunicazione.
Come mental coach, chi sono i suoi clienti?
“Sono atleti appartenenti soprattutto al mondo del calcio. Collaboro con la Giosport, un’agenzia di procuratori fondata dagli agenti Fifa brindisini Giovanni Tateo e Valeriano Narcisi. Ho giovani che giocano in club di Serie A, così come ragazzi di categorie minori”.
Per quella che è la sua esperienza in materia, un nuovo scandalo riguardante il mondo delle scommesse clandestine era prevedibile?
“In Italia i giovani più talentuosi vengono coinvolti dai club nei vivai. Già in età adolescenziale vengono collocati in strutture che sono una specie di convitti e frequentano il più delle volte scuole private, insieme ai loro compagni di squadra. Perciò la vita di questi ragazzi si esaurisce nel circolo vizioso allenamento – scuola – convitto. Uno stile di vita di questo tipo li costringe in una bolla dalla quale faticano ad uscire anche una volta che sono diventati adulti e nega loro le esperienze sociali più basilari, che ognuno dovrebbe sperimentare per uno sviluppo completo della persona. Da un punto di vista educativo e pedagogico, questo è devastante. La difficoltà a pensare al di fuori della bolla in cui vivono si traduce in una incapacità di rapportarsi agli altri e al mondo in modo sano. Quindi, per rispondere alla sua domanda, sì: viste le premesse, non era difficile pensare a questa evoluzione e, soprattutto, non è difficile ipotizzare che fenomeni di questo tipo accadano anche in futuro”.
Che vita relazionale hanno questi giovani atleti?
“Il problema è proprio questo: non riescono a rapportarsi con le situazioni che provengono dall’esterno, per cui diventano sempre più soli. C’è un punto sul quale mi piace insistere: le società, calcistiche, che diventano il fulcro della vita di questi ragazzi, dovrebbero consentire loro di fare esperienze al di fuori dei contesti strettamente sportivi. In alcune zone d’Europa, so che le società affidano i giovani appena arrivati nei vivai a dei tutor che hanno esattamente questo compito: farli uscire dalla bolla e abituarli al confronto con la vita che c’è fuori”.
Quindi sta via via venendo meno il cliché del giovane calciatore circondato da donne, abituato ad accompagnarsi ogni sera ad una ragazza diversa?
“Più che altro questi ragazzi si accompagnano al telefonino. Le loro relazioni sentimentali e amicali sono fortemente compromesse da questo stile di vita così chiuso. E capita che spesso non riescano a salvaguardare i rapporti che avevano prima di essere tesserati”.
Chi chiede il suo intervento? Famiglie, società sportive?
“Principalmente le famiglie. Però, ultimamente, c’è stato qualche allenatore coscienzioso che mi ha sottoposto delle situazioni molto delicate. E, per quanto sia molto più raro, anche qualche società lungimirante mi ha proposto di organizzare degli incontri.
Credo che sia un segno di apertura che non va ignorato, ma c’è ancora tanta strada da fare. Soprattutto se pensiamo che spesso l’intervento del mental coach viene chiesto come se si trattasse di una specie di mago che risolve le situazioni dall’oggi al domani. Ovviamente non è così ed è importante che famiglie e società se ne rendano conto”.
Entrando più specificatamente nel mondo della ludopatia, qual è il meccanismo mentale che spinge questi giovani atleti a scommettere?
“Partiamo dal presupposto che il gioco d’azzardo patologico è una condizione morbosa cronica e recidivante del sistema nervoso centrale e questa è una conquista, dato che in passato veniva considerato un vizio o una condizione transitoria. Dal punto di vista biochimico funziona come una sostanza, legale e non: alcool, tabacco, stupefacenti, farmaci. Diversamente non si spiegherebbe come mai questi ragazzi, pur essendo consapevoli di non avere possibilità di vittoria o di avere una percentuale di riuscita estremamente bassa, continuano a giocare”.
È guaribile? O almeno curabile?
“È gestibile. Essendo una vera e propria dipendenza, bisogna intervenire con gli strumenti medici e sociali adeguati. Al Sert di Brindisi, per esempio, c’è un gruppo di lavoro che si occupa proprio di ludopatia. Serve molto sforzo personale e anche un contesto di relazioni molto solido”.
Perché il problema del gioco d’azzardo patologico è così diffuso e, soprattutto, perché interessa un segmento sempre più giovane della società?
“Lavoro molto con i giovani in condizioni di disagio sociale. Sono i famosi neet, ragazzi che non studiano e non lavorano, eppure hanno sempre in mano lo scontrino di una scommessa. Quando glielo si fa notare, sorridono e minimizzano, perché non percepiscono il pericolo rappresentato da questo stile di vita. Alcuni addirittura sono convinti che prima o poi faranno il colpaccio e vinceranno una somma tale da cambiare il loro destino. Perché sono sempre più giovani? Per un motivo semplice e banale: oggi scommettere è diventato accessibile a tutti. Ci sono sale ovunque, si può giocare online senza controllo, si comincia sin da molto piccoli ad accompagnare i genitori a puntare.
Non esiste uno scommettitore tipo, semplicemente perché lo scommettitore tipo può essere chiunque: il pensionato minimo, il libero professionista, l’extracomunitario in difficoltà, il ragazzino abituato a vedere il padre giocare, il giovane atleta che sembrerebbe avere tutto e invece ha un vuoto interiore che lo porta a giocare compulsivamente.
Un tempo c’era la schedina da giocare il sabato pomeriggio, ma era una situazione ritualistica che univa le persone, non le allontanava e, cosa più importante, era qualcosa che restava confinata ad un momento preciso. Oggi si può scommettere in qualsiasi luogo, a qualsiasi ora, su qualsiasi cosa”.
Rispetto agli atleti brindisini che segue, cosa riscontra?
“Non riesco a quantificare il fenomeno in termini numerici, in relazione agli atleti. Posso però dire che, abitando di fronte ad una sala scommesse, vedo sempre più giovani e, purtroppo, giovanissimi, andare in giro con scontrini in mano. Alcuni hanno magari avuto a che fare con il mondo del calcio, ma non è andata bene. Allora, delusi da questo sogno infranto, si buttano sulle scommesse pensando di restare nell’ambiente”.
Alcuni esperti di disagio giovanile riconducono al vuoto esistenziale il gioco d’azzardo patologico in età giovanile. Altri parlano di danni dell’abbondanza. La verità sta nel mezzo?
“Devo deluderla: io non ho una verità, ma ho fatto questa riflessione riguardo ai calciatori Zaniolo, Tonali e Fagioli. Tutti e tre hanno esordito da giovanissimi. Tutti e tre hanno hanno vissuto nella bolla a cui facevo riferimento prima. Certamente la loro finestra sul mondo è stata il cellulare, che è diventato una vera e propria agenzia educativa in sostituzione di famiglia, scuola, parrocchia e tutto il resto. In questa condizione di solitudine, i siti di scommesse online e i social network possono insinuarsi molto facilmente.
Se a questo aggiungiamo da una parte la grande disponibilità economica e dall’altra il calo motivazionale che spesso arriva quando si raggiungono gli obiettivi che ci si è posti, ossia lo status di professionista, abbiamo il quadro completo”.
Come si fa ad aprire al mondo ragazzi che vivono una realtà così compressa?
“Portandoli ad avere familiarità con le loro emozioni e guidandoli a fare scelte di consapevolezza. Il mental coach non lavora soltanto con il professionista di alto livello che deve migliorare la prestazione in campo, ma permette al suo allievo di capire i suoi bisogni cercando una risposta sana ad essi. Lo porta a riprogrammare continuamente i suoi obiettivi in modo che non si senta mai arrivato e non incappi in dinamiche che lo conducano a cercare soddisfazione sviluppando dipendenze che si sostituiscono agli obiettivi “.