Il giovane boss si pente: l’ascesa di Ramarro Jr. si interrompe. E ora la Scu trema

Da ragazzino era specializzato nelle rapine ai negozi del quartiere: aveva poco più di 14 anni, ma portava già sulle spalle un soprannome pesante, “Ramarro”, ereditato dal padre. Andrea è il figlio di Gino Romano, detto appunto Ramarro, uno dei pochi sopravvissuti allo sterminio dei vecchi boss brindisini deciso dalla Sacra corona unita negli anni Novanta. Si diceva che Gino fosse scampato miracolosamente all’esecuzione perché il kalashnikov con cui il gruppo di fuoco fece irruzione nella sua casa al mare si inceppò. Il 24 giugno 1995, in quella che a Brindisi viene ricordata come “La notte delle bombe” venne arrestato dalla squadra mobile perché trovato in possesso di una mitraglietta e di una bomba a mano e condannato a nove anni di carcere. Qualche anno dopo si scoprì che a piazzargli l’ordigno e l’arma in casa erano stati gli stessi agenti di una Squadra mobile che all’epoca era deviata (i poliziotti furono poi tutti arrestati e condannati). Per la sua scarcerazione si batté persino il suo compagno di cella più illustre, l’ideologo dell’estrema destra Franco Freda, accusato di aver organizzato la strage di piazza Fontana del 1969, è stato definitivamente assolto per mancanza di prove.
Quando avveniva tutto questo Andrea, classe 1986, iniziava la sua precoce scalata nei gangli della malavita, senza passare da quella che era stata la porta di servizio della generazione precedente: il contrabbando di sigarette era finito. E lui, giovanissimo, iniziò a fare piccole rapine solitarie, zona prediletta il quartiere Cappuccini. Era il figlio di Gino Ramarro, la sua fama viaggiava su una corsia preferenziale, insieme a una spregiudicatezza pari alle aspettative. Il suo dentro-fuori dal carcere sin da minorenne lo portò a essere uno dei primi detenuti italiani a essere munito di braccialetto alla caviglia. Nel novembre 2014 stava scontando nella sua casa in piazza Raffaello, al rione Sant’Elia, una condanna per una serie di rapine effettuate nella zona di Forlì.
Nella stessa palazzina in cui viveva, con il braccialetto elettronico alla caviglia, uccise (con la complicità di Alessandro Polito e Francesco Coffa) Mino Tedesco, ferendo gravemente il figlio Luca. Motivo del delitto, una lite banale tra le mogli avvenuta la sera prima, durante una festa di Halloween, per dispetti tra bambini.
Fu anche uno dei primi in Italia ad evadere con quel braccialetto elettronico, dopo l’omicidio. Scappò in Spagna per poi rientrare in Italia. Aveva troppi affari da gestire. Venne catturato in un appartamento di San Vito dei Normanni dove si era nascosto con l’appoggio di due fiancheggiatori. Sotto il cuscino aveva la sua inseparabile Beretta mod. 84F cal. 9 corto, con 6 colpi nel serbatoio e matricola abrasa.
La Corte d’assise spense per sempre la luce sulle sue aspirazioni di uomo libero: ergastolo, confermato poi in tutti i gradi di giudizio.
Andrea non aveva ceduto e dal carcere continuava il suo percorso di affermazione, perché va ricordato che la Sacra corona unita, quella vera, è stata fondata in carcere negli anni Ottanta e in cella ha avuto sempre il suo quartier generale.
E nel febbraio di quest’anno la sua leader-ship nella nuova mafia brindisina è stata certificata nell’operazione che ha portato in carcere venti presunti appartenenti al clan che gestisce il traffico di droga in città. Alla guida ci sono le famiglie “Romano/Coffa”, discendenti di quelle storiche della malavita brindisina anni Ottanta. Andrea risulta esserne il capo. Con tanto di “pizzini” che spedisce dal carcere con un ordine che è sempre lo stesso: “Il resto fate voi, avete il mio via”. Ad accusarlo, alcuni collaboratori di giustizia, tra cui il mesagnese Sandro Campana, che a marzo si è poi tolto la vita impiccandosi nella località protetta in cui viveva.
Era destinato a essere un boss che non sarebbe mai più uscito dal carcere Andrea Romano. Molti accettano questa prospettiva: comandare anche se non si lascerà mai più la cella. Lui no. A 34 anni ha deciso di interrompere una carriera fulminea, di cedere le armi, dopo più della metà della sua esistenzagià trascorsa nel crimine.
Non si sa quanto sia pentito, ma intanto è ufficialmente collaboratore di giustizia. Lo ha annunciato in aula, a Lecce, il pm della Dda Guglielmo Cataldi. Romano ha firmato il suo primo verbale d’accusa qualche giorno fa, il 18 dicembre. E’ stato ovviamente secretato.
Di certo conosce tutti i segreti della nuova criminalità organizzata brindisina. Se sarà considerato attendibile, se davvero ha deciso di chiudere i conti con il passato, lo sapremo solo tra qualche mese. Ma per la Sacra corona unita potrebbe essere un colpo letale. Anche Ramarro si è pentito. Non ha più diritto a quel soprannome.