
Di Marina Poci per il numero 370 de Il7 Magazine
“Il mio primo incarico fu quello di giudice istruttore penale a Voghera, nel 1984. Ero in una sezione promiscua in cui facevo anche il giudice del dibattimento e avevo persino un piccolo ruolo civile”: il lungo racconto della sua vita in magistratura il dottor Antonio De Donno, da pochi giorni in pensione da Procuratore della Repubblica di Brindisi, lo comincia con il ricordo delle prime udienze nel piccolo centro dell’Oltrepò Pavese il cui carcere di massima sicurezza, tra la fine degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, “ospitò” molti detenuti eccellenti, dal banchiere massonico Michele Sindona, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, al Bel Renè, il rapinatore Renato Vallanzasca, sino ai più sanguinosi esponenti delle organizzazioni mafiose e terroristiche.
Il giovane De Donno, avido di apprendere dai colleghi più esperti e ansioso di dare il suo contributo alla lotta dello Stato contro le espressioni più estreme del radicalismo politico, era lì anche quando fu arrestata la brigatista rossa Barbara Balzerani, che ebbe un ruolo di primo piano nel sequestro Moro e fu collocata in quel penitenziario proprio perché era uno dei pochissimi in Italia in cui c’era una sezione femminile di massima sicurezza.
La lotta alla criminalità organizzata sarebbe arrivata dopo, precisamente nel 1991, quando – dopo l’istituzione delle direzioni distrettuali antimafia – il Procuratore Cataldo Motta lo volle nella squadra insieme a lui e al dottor Francesco Mandoi.
Dunque nei suoi primi anni di carriera si è occupato di terrorismo.
“Indirettamente. Quando queste detenute “illustri” venivano arrestate ed era quindi emesso un provvedimento di custodia cautelare nei loro confronti, bisognava interrogarle entro dieci giorni. Era un compito che spettava a me, in quanto unico giudice istruttore di Voghera. Inoltre mi occupavo dei reati commessi dai terroristi in carcere, anche se difficilmente si trattava di delitti particolarmente gravi, erano quasi sempre azioni provocatorie”.
Una bella palestra.
“In effetti sì, anche perché quell’area era interessata, già in quell’epoca, dai grandi traffici di droga da parte dei clan mafiosi calabresi e siciliani, per cui trattavo i reati più diversi e piano a piano cominciavo ad entrare nelle logiche mafiose, per decodificare le quali mi sarei impegnato tanto dopo, Ma il fascicolo più “importante”, se così si può dire, fu quello che riguardò la morte di Michele Sindona, avvenuta nel quinto braccio del carcere di Voghera, dov’era in isolamento, a seguito dell’ingestione di un caffè nel quale c’era del cianuro di potassio. Due giorni prima era stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio dell’avvocato Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, di cui Sindona era l’azionista di maggioranza”.
Che ruolo ebbe in quella vicenda il giovane Antonio De Donno?
“La Procura Generale di Milano, che avocò a sé le indagini, ritenne che fosse stato un suicidio. Io, come giudice istruttore, accolsi questa tesi”.
Quando arrivò in Puglia?
“Nel 1990. Nell’89, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la figura del giudice istruttore fu soppressa, quindi mi trovai sostanzialmente senza il lavoro che avevo svolto sino a quel momento. Perciò chiesi di essere trasferito in Procura. Come destinazioni indicai Milano o Lecce e ottenni Lecce, dove iniziai subito a occuparmi di criminalità organizzata”.
Prima diceva che aveva iniziato già a Voghera a familiarizzare con i fenomeni associativi di tipo mafioso.
“Sì, anche se devo ammettere che, arrivato in Salento, ero smarrito. Non ne sapevo molto della terra che avevo lasciato a diciotto anni per iscrivermi all’università. Arrivato a Lecce, scoprii che anche qui c’era la mafia”.
Fu pubblico ministero nella stagione calda dei maxiprocessi alla SCU.
“Esattamente. In particolare, fui pm insieme al dottor Cataldo Motta nel maxiprocesso in cui per la prima volta venivano contestati, insieme all’associazione di tipo mafioso, anche decine di omicidi. Si concluse nel 1997 con un grande successo strategico, perché per la prima volta venivano condannati mandanti ed esecutori materiali di moltissimi omicidi eccellenti”.
Dopo?
“Dopo chiesi di essere assegnato all’ufficio Gip della Pretura di Lecce, perché nel frattempo ero diventato presidente distrettuale dell’Associazione Nazionale Magistrati e l’impegno nella DDA era poco compatibile con l’impegno associativo. Ma non durò tantissimo: soppresse le preture, passai all’ufficio Gip del Tribunale, poi alla sezione Riesame, infine nuovamente in Procura, prima come Aggiunto e coordinatore della DDA di Lecce, infine come Procuratore della Repubblica di Brindisi. Si stava delineando all’orizzonte la legge sulla separazione delle funzioni e proprio non me la sentivo di restare un giudicante puro. Forse non lo sono mai stato”.
In quasi quarantadue anni ha esercitato funzioni molto diverse: quale ritiene sia stata più nelle sue corde?
“Sotto il profilo formativo, dell’approfondimento culturale, ho amato molto lavorare al Riesame, perché è una funzione che impone di prendere decisioni rapide da motivare in breve tempo, motivo per cui è necessario avere una grande capacità di approfondimento che ti obbliga a studiare continuamente. Ma il ruolo che ho amato di più, il più interessante, il più dinamico, è stato il sostituto procuratore della Repubblica”.
Quindi funzione inquirente, ma non in ruoli dirigenziali.
“Esatto. Mi è sempre piaciuto fare le indagini”.
È arrivato a Brindisi nel 2017: è un lasso di tempo piuttosto contenuto, ma forse sufficiente per trarre un bilancio della realtà brindisina. L’ha vista cambiare? Come?
“La realtà brindisina la conoscevo da esterno, perché come magistrato della DDA l’istinto era quello di considerare Brindisi come un territorio nemico, quello in cui la SCU era nata. Ma mi sono reso conto ben presto che ero vittima di una visione superficiale e preconcetta: ho trovato un territorio ricco di persone leali e coraggiose, che hanno grande voglia di riscatto civico. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è sicuramente Mesagne, paese in cui si percepisce in maniera chiara quanto la comunità abbia voglia di riscattarsi dall’ipoteca della mafia. C’è un associazionismo diffuso, le scuole sono diventate paladine nei percorsi di legalità e tutte le volte in cui sono stato ospite di iniziative a favore della legalità ho trovato grande consenso sociale nel territorio”.
Il resto della provincia?
“Direi che c’è una situazione a macchia di leopardo: non possiamo negare che quanto sta accadendo a San Pietro Vernotico sia preoccupante. Ma nemmeno possiamo negare che negli ultimi anni ci sono comuni in cui sia palpabile la crescita in termini di politiche di legalità”.
Come si creano nella società e nei giovani gli anticorpi nei confronti dell’illegalità e, più nello specifico, nei confronti della fascinazione rappresentata dall’associazionismo mafioso?
“In molti modi diversi. Sicuramente con la repressione giudiziaria (fondamentale, perché, se non viene aggredita con azioni investigative pregnanti che poi si traducono in condanne, la mafia tende a fare proseliti). Ma questo è soltanto un segmento: il resto è diffusione della cultura della legalità attraverso percorsi educativi di tipo consociativo. L’obiettivo che come società dobbiamo porci è quello di creare luoghi fisici aperti, in cui celebrare il rispetto dell’altro, delle istituzioni, delle leggi. Se noi riusciamo a far capire ai cittadini che lo Stato è dalla loro parte, mentre la mafia mira soltanto a danneggiarli, allora le associazioni criminali avranno sempre meno consenso e sempre più difficoltà ad imporsi”.
“Lo diceva Giovanni Falcone: se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.
“Esattamente: Falcone parlava proprio di una grande battaglia sociale sul territorio, di cui devono farsi carico i cittadini liberi e le associazioni libere per intaccare il consenso di cui la mafia purtroppo gode”.
Nella sua vita di magistrato ha conosciuto tanti esponenti di consorterie mafiose: come sono cambiati nel corso degli anni? Ritiene che ultimamente si debba registrare una recrudescenza di alcuni modelli criminali riconducibili alle prime manifestazioni del fenomeno mafioso?
“Purtroppo è così, non possiamo e non dobbiamo negarlo. Tra gli anni Ottanta e Novanta la reazione dello Stato alla violenza della SCU è stata talmente tempestiva ed efficace da indurre i clan a modificare le strategie. Per lungo tempo si sono dedicati ai traffici di stupefacenti e hanno reinvestito nell’imprenditoria i proventi delle attività illecite, di fatto rinunciando all’uso smodato della violenza, confinata ai casi strettamente necessari per evitare nuove reazioni dello Stato. Oggi effettivamente molti dei boss condannati in quegli anni sono prossimi alla scarcerazione o sono stati scarcerati e purtroppo stanno tornando sul territorio con la mentalità di trenta o quaranta anni fa, abbandonando la logica mafiosa imprenditoriale e tentando di ripristinare una logica di espansione che, giocoforza, prelude a modalità di affermazione violente e, qualche volta, persino stragiste”.
In che modo si deve agire per contenere questa possibile evoluzione, o forse dovremmo dire involuzione, criminale?
“Mi auguro che si riesca ad agire d’anticipo, considerato che ormai conosciamo queste dinamiche. E, soprattutto, mi auguro che, come in passato, si riesca a fare squadra: magistratura, forze dell’ordine e cittadini”.
Andrà avanti con l’impegno a favore della legalità anche dopo il pensionamento? Come?
“Non mi fermerò di sicuro: andrò avanti con l’impegno sociale e divulgativo, nella lotta contro ogni forma di illegalità. Fa parte del mio dna: il contenuto della mia azione prescinde dal ruolo che ho smesso di esercitare. Sicuramente mi muoverò nell’ambito di precisi contesti associativi: cambiare il mondo da solo non mi è mai interessato”.
Ad un giovane laureato in Giurisprudenza che voglia tentare la carriera in magistratura, cosa sente di dire?
“È una professione stupenda, ma per essere svolta bene deve ispirarsi a canoni ben precisi: la competenza prima di tutto, perché si va ad invadere la sfera personale e patrimoniale altrui, e questo richiede un approccio che si basa su un’accurata conoscenza giuridica. Occorre poi avere grande esperienza delle cose del mondo, perché non si può intervenire sul mondo se non lo si conosce: quindi serve una grande cultura generale, anche pratica. Infine, occorre grande rispetto per il cittadino che incappa nelle maglie della giustizia, sia esso vittima o carnefice. Il rispetto porta alla prudenza e limita al minimo gli errori”.
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