
di Riccardo Celli per il7 Magazine
Dietro ogni sorriso c’è una storia. Dietro quello di Henry Israel, ragazzo di ventuno anni che ha vissuto l’inferno, domandolo arrivando a vivere in Italia e a lavorare al «McDonald’s» di Brindisi, non c’è solo la storia di un giovanissimo migrante, ma anche quella di un ragazzo simbolo dell’autodeterminazione e caparbietà di chi ha visto la morte negli occhi. Facciamo un passo indietro. Henry è nato in Nigeria, ad Enugu, il 27 gennaio del 2001. I suoi primi anni di vita sono stati «normali», per quanto possa essere normale vivere nel Biafra, con una guerra civile in corso da decenni, che lascia dietro sé migliaia di morti innocenti. Quando sei bambino però il male non hai idea di cosa sia e riesci sempre a sentirti al sicuro tra le braccia di tua madre, anche se ti dovessi trovare nella situazione più pericolosa al mondo. Henry non faceva eccezione e tra le braccia di mamma Happiness – che in inglese significa felicità-, si sentiva protetto e per l’appunto felice, come solo un bambino può sentirsi. A casa stava bene, suo fratello maggiore Joshua si prendeva cura di lui, la madre lavorava e riusciva a vivere dignitosamente oltre che a garantirgli l’accesso all’istruzione, cosa non scontata nell’angolo di mondo in cui si ritrovava.
Eppure nel 2012 la sua vita cambia in modo repentino, facendogli probabilmente per la prima volta conoscere il dolore, quello vero. In quell’anno sua madre, colei che è sempre stata il suo punto di riferimento e la colonna portante della sua stessa esistenza, morì a causa di un incidente stradale. Da quel momento in poi il fratello, di soli sei anni più grande di lui, si rimboccò le maniche per garantire a se stesso e a Henry una vita degna di essere definita tale. Da subito però l’andare a scuola divenne un’utopia, dato che in Nigeria l’istruzione non è gratuita. I soldi guadagnati servivano per mangiare e a volte neanche bastavano. Dopo un anno di stenti Joshua decise di partire verso la Libia, ovviamente insieme al fratello. Fu così che i due, insieme ad altre centinaia di persone, partirono verso il Nord Africa, attraversando con le proprie gambe o con mezzi di fortuna deserti e savane. Molti non ce la fecero a causa della fatica, ma loro sì. Non appena arrivati Joshua riuscì a trovare lavoro come pastore, occupandosi dei vari animali da fattoria di un signore arabo.
A volte Henry lo aiutava e in questo modo riuscirono a sopravvivere per quattro lunghi anni. La vita in ciò che lui stesso definisce come «ghetto» costava poco, almeno per mangiare, e già questa per loro era una grande conquista. Chi arriva in Libia da migrante, di solito, vive in dei quartieri-ghetto simili a dei campi rom, dove però c’è tutto quello che serve per dare alla propria sopravvivenza una parvenza di vita. Ovviamente coloro che riescono a sfuggire dalla polizia libica e dai vari gruppi terroristici, che chiedono riscatti alle famiglie dei catturati che se non pagati, come ovviamente spesso accade, provocano la morte del malcapitato. Gli stessi terroristi dal quale Henry una mattina scappò, trovando insieme al fratello rifugio nella fattoria del loro capo. Dopo due settimane passate a nascondersi nella fattoria, come facevano gli animali che accudivano durante un temporale, grazie anche all’aiuto del signore arabo riuscirono a raggiungere un fiume, dove salirono su un gommone diretto nel mediterraneo. Una volta che furono in mare aperto, persi nell’infinita distesa blu dell’acqua, qualcosa andò storto. L’imbarcazione, se così si può definire il cumulo di pvc usato dai migranti per raggiungere le coste italiane, incominciò a riempirsi d’acqua, qualche istante prima che la benzina contaminasse l’acqua stessa e che il gommone esplodesse, creando un tappeto di fiamme sull’acqua. La maggior parte di quelle persone non ce la fece, morirono nel modo più straziante possibile: bruciati vivi mentre erano quasi alla fine del loro personalissimo viaggio verso la felicità. Joshua fu una delle vittime dell’esplosione, mentre Henry fu più “fortunato” e invece della morte la traversata gli regalò delle gambe martoriate dalle ustioni, che si porterà addosso per tutta la vita. Non ricorda né chi lo soccorse e né dove sbarcarono, dato che svenne non appena messo al sicuro. Ciò che ricorda sono i lunghi mesi passati su un letto, senza la possibilità di muoversi, data la gravità delle ferite riportate. Alcuni di questi passati al «Cara» di Restinco dove, a quanto ricorda, gli insegnarono sin da subito le basi della lingua italiana e la cultura del nuovo mondo dove, volente o nolente, ormai si ritrovava. Ora, dopo aver frequentato la scuola alfabetica e le scuole medie, Henry frequenta l’ultimo anno all’istituto alberghiero “Sandro Pertini” di Brindisi ed è uno studente modello. Come se ciò non bastasse vive da solo e lavora, al McDonald’s di Brindisi, dove regala ai clienti ciò che di più bello ha, che è anche ciò che spero non li mancherà mai: il sorriso. Ciò che di lui più colpisce è proprio il sorriso. Henry sorride, sorride sempre, anche se a volte prova a fare il duro, ma con scarsissimi risultati. Henry sorride, anche se al mondo non ha nessuno, né padre, né madre, né fratello. Soprattutto non ha qualcuno che gli auguri buon Natale, perchè Henry non ha amici. Come lui mi spiega, la forma più subdola di razzismo è proprio questa.
«Quando qualcuno per strada mi chiama ne*ro io sorrido, penso solo che è uno stupido imbecille e che io sono meglio di lui. Il problema sorge quando ad esempio torno da scuola, vestito bene perché magari c’è stato un evento importante e qualcuno cambia marciapiede. Non sono un ladro, perché le persone mi evitano? In classe nessuno mi parla, a volte mi chiedo se pensino che io sia analfabeta. Non ho nessuno che mi chiede come sto, a cosa penso, qualcuno con cui festeggiare il compleanno o scambiarmi gli auguri di Natale. Questa situazione ti porta a non sognare più, ma semplicemente ad arrenderti alla vita così com’è. A malapena ricordo cos’è l’affetto. Sono solo, ma va bene così».
Subito dopo spiazza con una frase, che può insegnare qualcosa ad ognuno di noi riguardo la vita: «Io però di queste cose me ne frego, la mattina mi alzo, mi guardo allo specchio e penso: io sto andando avanti, loro rimarranno per sempre indietro. E poi sorrido».