L’editoriale del direttore Gianmarco di Napoli per il numero 405 de Il7 Magazine
Nella terribile storia di Latiano, in cui un uomo ha ridotto in fin di vita la moglie di 44 anni, massacrandola di botte in casa per l’ennesima volta, una vicenda che sembra piena zeppa di errori commessi a tutti i livelli, tali da mettere a repentaglio la vita di una donna, emerge in maniera clamorosa la decisione coraggiosa di un’unica persona, quella che per ruolo ricoperto mai ti aspetteresti compiere una scelta così dirompente: l’avvocato difensore dell’indagato ha rinunciato a difenderlo.
Pasquale Fistetti, penalista oritano, ha rimesso il mandato prima dell’udienza di convalida dell’arresto, in programma giovedì mattina nel carcere di Brindisi, davanti al gip Vittorio Testi. Il motivo della rinuncia (ne dà notizia Brindisi Report) è quello dell’essere venuto meno il rapporto fiduciario con l’assistito che è tornato a compiere contro la moglie nuovi atti di violenza, per i quali recentemente era stato già condannato a due anni e mezzo di reclusione.
Intendiamoci. Tutti gli imputati, anche quelli accusati dei reati più gravi e infamanti, hanno diritto a essere difesi in un giusto processo. E dunque nulla avrebbe impedito all’avvocato Fistetti di continuare a difendere l’indagato, anche dall’accusa di tentato omicidio della moglie (era stato condannato invece per maltrattamenti e lesioni nei confronti della donna, oltre che per resistenza e oltraggio ai carabinieri intervenuti per arrestarlo. Era riuscito a contenere la pena a due anni e mezzo e soprattutto a fargliela scontare agli arresti domiciliari.
Probabilmente il legale era convinto (o sperava) che le rassicurazioni di pentimento del suo cliente fossero sincere e anche i suoi propositi di ravvedimento.
Quando però egli è tornato a picchiare la moglie, e a farlo con tale violenza da quasi ammazzarla, ha scelto di fare un passo indietro. Rinunciando alla difesa, al compenso. Una scelta assolutamente non dovuta ma che sembra l’unico segnale davvero di rottura e che arriva, paradossalmente, dalla parte opposta.
Lo Stato, la giustizia, in questa vicenda hanno mostrato tutti i propri limiti, legittimando il timore che i gangli del nostro sistema giudiziario siano ancora sconnessi tra loro e inadeguati a fronteggiare in maniera adeguata le aggressioni alle donne. Anche quando i rischi sono evidenti, plateali.
A fronte di un ottimo apparato operativo (i carabinieri di fatto hanno salvato per due volte la vita alla donna di Latiano) tutto il resto del sistema è fragile e sconnesso. Ecco perché.
Due mesi fa l’uomo, che pare abbia conclamati problemi di tossicodipendenza, aveva picchiato per l’ennesima volta la moglie in casa, circostanza questa poi certificata da una perizia medica. Inoltre si era scagliato pure contro i carabinieri.
E’ stato condannato per tutti questi reati, ma gli è stato concesso di scontare la pena ai domiciliari e non in carcere. Soluzione legittima, ma priva di qualsiasi garanzia nei confronti della vittima perché è stato “dimenticato” di prescrivere l’utilizzo obbligatorio del braccialetto elettronico per segnalare l’eventuale allontanamento dal domicilio.
Ricordiamo che solo qualche settimana fa al sindaco di Ruffano, detenuto per un’inchiesta su tangenti, quindi sicuramente non per violenza, sono stati negati per diversi giorni i domiciliari solo perché non era disponibile un braccialetto.
Per quale motivo in una situazione di codice rosso non è stato previsto il sistema elettronico di controllo?
Ottenuti i domiciliari, l’uomo è tornato nella casa di famiglia. La moglie ha scelto di trasferirsi in un’altra abitazione, sempre a Latiano. L’aggressione è avvenuta in quella che fino a pochi mesi fa era la residenza di entrambi.
E qui c’è la seconda riflessione: nel comunicato diffuso dai carabinieri di Brindisi, ma sicuramente vidimato dalla Procura, prima ancora di certificare che la donna sia stata massacrata di botte, si evidenzia che “entrambi erano in stato di alterazione psicofisica”.
In pratica, dicono i carabinieri, la donna (che aveva la testa fracassata, il volto sanguinante e una emorragia interna toracica per cui è tuttora in Rianimazione con riserva di prognosi), era pure in stato di alterazione. E questo, ammesso che sia vero e che comunque circostanza ininfluente, oltre che riguardante la sfera personale e privata di una vittima, cosa c’entra con l’episodio?
Inoltre, e questo è ancora più inquietante, i carabinieri (e la procura) scrivono che “per ragioni in via d’accertamento la donna si recava presso l’abitazione del marito e che non se ne conoscono le ragioni”. Ma quella non era solo l’abitazione dell’uomo, ma la casa in cui avevano vissuto insieme per vent’anni, in cui c’erano tutte le sue cose.
Cosa significa? Che lei ha in qualche modo una responsabilità nell’aver subito l’aggressione solo per essersi recata nella propria casa? C’è un concorso di colpe? E se l’avesse attirata con una trappola, magari con la promessa di essere cambiato? Lei è una donna libera, una vittima. Lui no. Ma nel comunicato sembrano quasi alla pari.
In questa vicenda terribile si racchiudono tutte le crepe di un sistema giudiziario che si dimostra ancora inadeguato, anche nella gestione delle informazioni, ad affrontare in maniera concreta, severa e determinata un fenomeno, quello delle aggressioni delle donne, inutilmente spettacolarizzato da convegni, tavole rotonde e panchine colorate. Il mondo reale è tutt’altro. E’ quello di una donna che ancora nella copertina della sua pagina Facebook ha la foto del marito.
Ecco perché nella storia di Latiano, paradigma di una giustizia ancora impreparata, inadeguata e a volte arruffona, il gesto coraggioso di un avvocato è l’unico segnale che conforta. Un uomo che tenta per la seconda volta di uccidere una donna è moralmente indifendibile. Il problema è riuscire a prevenire quella seconda volta.