«Produciamo solo la felicità della gente. Troppo poco perché il governo si interessi anche alla nostra sorte»

Qualche anno fa, l’incontro con il mondo del circo gli ha cambiato la vita: per questo motivo, vedere quel tendone chiuso al pubblico e alle attività a cui era destinato lo rende malinconico, inquieto, frustrato. Gabriele Cagnazzo, ballerino brindisino trentottenne con esperienza nazionale e internazionale, artista di strada, promotore di una delle prime esperienze italiane di circo sociale, racconta con tristezza come le politiche governative di contenimento del contagio da Covid-19 abbiano interrotto le attività di formazione educativa nelle arti circensi e teatrali promosse dalla cooperativa sociale “TenRock Teatro Circo”, il cui chapiteau, montato soltanto pochi mesi fa in contrada Marmorelle, nelle campagne tra Brindisi e San Vito dei Normanni, sarebbe stato, a partire dal mese di aprile, lo scenario di percorsi ludico-pedagogici in collaborazione con le scuole del territorio.
“Come può immaginare, ogni attività in questo momento è bloccata e non possiamo farne una colpa a nessuno”, puntualizza Cagnazzo, “Ma non dobbiamo tacere che siamo insoddisfatti di come il Governo sta agendo nei confronti di chi opera nei settori della cultura e dello spettacolo. Siamo cittadini anche noi. Bisogna che sia chiaro che senza gli artisti non c’è società. Chi ha questa vocazione di vita lo fa per generare processi culturali. Se viene a mancare l’arte, non c’è possibilità di avanzamento per l’umanità: diventiamo esseri spiritualmente ibernati. Gli artisti aiutano a guardare il mondo con gli occhi dell’emozione. In un periodo difficile come quello che stiamo vivendo, assecondare le proprie emozioni è fondamentale: per questo gli artisti devono essere tutelati e sostenuti, esattamente come le altre categorie sociali”.
Il circo sociale cui Gabriele Cagnazzo fa riferimento è un’attività sperimentale presente in Italia da una trentina d’anni. Si rivolge ad un’utenza di persone che per i più svariati motivi, spesso legati a disabilità fisiche e mentali, manifestano difficoltà a trovare una propria collocazione nella cittadinanza attiva. Lo scopo dell’esperienza, attraverso l’utilizzo delle arti circensi, è quello di promuovere e sviluppare, dal punto di vista cognitivo ed emotivo, l’identità del soggetto coinvolto, per agevolarne l’inserimento nei più vari ambienti. Puntando a replicare il modello di accoglienza circense nei contesti sociali nei quali la persona andrà concretamente ad operare (“all’interno delle arti circensi c’è posto per tutti”, dice con orgoglio Cagnazzo), le attività del circo sociale spogliano il soggetto della sua identità precedente (“il disabile, il bullo, il capro espiatorio”) recuperandolo pienamente alla società per renderlo parte costitutiva del tessuto territoriale: “se non tutti possono fare tutto, è giusto che ognuno impari a trovare la giusta dimensione, individuale e/o collettiva, all’interno della quale far crescere il proprio io”.
Come nasce l’idea del circo sociale e che tipo di sviluppo avuto?
“Il progetto “TenRock” nasce da un bando regionale del 2014, nel più classico dei modi, cioè attraverso una start-up. Il “TenRock” ha sperimentato in questi anni un modello denominato “Circo-Motricità” il quale, ispirandosi ai percorsi pedagogici e terapeutici della disciplina conosciuta come “Psicomotricità”, ha sviluppato un modulo educativo che mira, mediante all’implementazione di capacità cognitive e motorie in soggetti deboli (autistici, down e, più in generale, soggetti con bisogni educativi speciali). Per fare questo ci avvaliamo delle arti circensi contemporanee, rigorosamente, lo specifico perché ci tengo molto, senza utilizzare animali. Tutto questo è avvenuto per cinque anni negli spazi della scuola elementare Livio Tempesta di Brindisi, grazie alla sinergia che si è creata tra l’amministrazione comunale e l’istituto comprensivo “Centro”. Come da bando regionale, il seguito del progetto riguardava la costruzione di un vero e proprio tendone di circo all’interno del progetto urbanistico. Per ragioni burocratiche e amministrative, questo non è stato possibile, per cui abbiamo dovuto cercare un altro luogo che ospitasse il nostro chapiteau. Ma soprattutto, prima di acquistarlo, dovevamo capire in che modo legare le nostre attività al territorio. Abbiamo quindi avviato una collaborazione con la cooperativa sociale brindisina “Il faro”, che si occupa di accoglienza di donne vittime di violenza con figli a carico promuovendo percorsi di auto-mutuo-aiuto che mirano a reinserirle nel mondo del lavoro ma anche a renderle culturalmente attive”.
Quindi in che maniera si è evoluta la collaborazione tra “TenRock Teatro Circo”e la cooperativa “Il faro”?
“I soci de “Il faro” hanno rilevato un terreno di 4 ettari nelle campagne brindisine con il chiaro obiettivo di ospitare “la comunità che accoglie la comunità”, non soltanto per generare opportunità lavorative, ma anche per diffondere cultura. Proprio in questo spazio abbiamo impiantato il nostro tendone: amo dire che, unendo le nostre competenze, l’arte si è sposata con il sociale. Prima dell’epidemia, eravamo pronti ad aprire a scuole elementari e medie che avevamo contattato e che avevano interesse a visionare il paesaggio circostante, particolarmente interessante dal punto di vista naturalistico, per poi concludere la piccola uscita con uno spettacolo tra circo e teatro”.
Per definizione, il circo sociale e il teatro sociale si occupano di soggetti svantaggiati non soltanto dal punto di vista personale, ma anche dal punto di vista famigliare, scolastico, territoriale. Possiamo dire che, in questo senso, il “TenRock” non faccia eccezione.
“Sì, è così. Purtroppo l’offerta del territorio è scarsa. Per questo le nostre porte sono aperte a tutti quei giovani ragazzi che vogliano affacciarsi all’arte di strada dal punto di vista professionalizzante. Ma già l’esperienza alla Livio Tempesta è stata molto stimolante: si tratta di una scuola del rione Commenda, una zona difficile di Brindisi, nella quale abbiamo cercato di portare arte e cultura in contesti non sempre pronti ad accoglierle”.
Con il Decreto “Rilancio”, nella fase 2 è prevista la possibilità di organizzare i campi estivi: state pensando di attivarvi per proporre attività di questo tipo?
“Ci stiamo pensando. Naturalmente, in un contesto che coinvolge i minori e l’utilizzo di oggetti che si scambiano, sarà molto difficile organizzarsi. Come si può offrire una proposta di interazione, per esempio la giocoleria, se anche soltanto lo scambio di un attrezzo, che sia la clava, la pallina, il piatto cinese, è potenzialmente pericoloso? Come riusciremo a garantire che il materasso anticaduta sia sanificato ogni volta che viene usato? Stiamo valutando tutte queste problematiche e speriamo di riuscire a superare tutti gli ostacoli che si presenteranno. Siamo circensi, non demordiamo”.
Da artista di strada e da responsabile della sua cooperativa, come immagina la sua estate?
“Non vedo la luce. Non c’è un piano per cultura e spettacolo, soltanto molte parole. Come artista di strada, io lavoro a cappello: se le sagre, le feste patronali, i festival, vengono annullati, purtroppo io non guadagno. Per quanto riguarda la cooperativa, invece, quelli che sarebbero partiti ad aprile erano progetti privati che sarebbero stati finanziati tramite fundraising: venuto meno il sostegno dei privati, abbiamo avuto ingenti perdite. Tra l’altro, con un investimento molto coraggioso, abbiamo acquistato il tendone da circo mesi fa: il fatto che tutti i piani siano saltati ci pone in una situazione economica particolarmente delicata. Nonostante questo, noi non siamo rientrati in nessuna delle forme di sostegno previste dal Governo”.
È come se chi fa divertire la gente non avesse dignità di operatore economico in questo Paese: soltanto chi produce beni e/o servizi ha diritto ad un ristoro per il momento di sosta.
“Purtroppo è così. Come artista di strada, trovo drammatico che non ci sia riconosciuta nemmeno una piccola forma di sostegno. Siamo cittadini di serie B: siccome non produciamo, a nessuno importa che grazie a noi la gente è felice”.
All’inizio del suo percorso artistico, lei non era un artista di strada e tantomeno un operatore sociale.
“No, non lo ero: io nasco ballerino. Per vent’anni ho completamente dedicato la mia vita alla danza, iniziando a studiarla da piccolo, a sei anni. Avevo un motore interiore che mi portava a ballare non appena sentivo un accenno di musica. Ho studiato alla scuola di danza Tersicore di Brindisi per circa dieci anni e a 17 ho fatto la mia prima audizione, per un musical che si stava allestendo in occasione del Giubileo del 2000. Ho vissuto a Roma per dieci anni, si può dire che abbia fatto lì tutta la mia gavetta professionale. Ho partecipato a produzioni nazionali e internazionali molto prestigiose sotto la guida di David Zard, tra cui la Tosca di Lucio Dalla”.
Quando e come ha incontrato le arti circensi?
“Ho incontrato il circo contemporaneo quando ero in Spagna, a Madrid. Ho conosciuto degli artisti di strada che stavano tenendo uno spettacolo all’aperto davanti ad un teatro nel quale mi ero recato per un’audizione. Sino ad allora non sapevo nemmeno che esistessero delle scuole di circo senza animali nelle quali apprendere e praticare le arti circensi. Questi artisti di strada, che facevano capo alla “Escuela Circo Carampa”, mi portarono in un tendone da circo che si trovava all’interno di un campo per rifugiati. In quel momento è come se fossi stato illuminato: ho capito che la mia missione nella vita era legare l’arte all’impegno sociale. Ho ampliato il mio processo creativo (ad oggi sono un performer di danza sui trampoli), ma sono soprattutto cresciuto come uomo”.
Quando è rientrato in Italia, come è proseguita la sua attività?
“Mentre ero ancora a Madrid fui richiamato a Brindisi dalla commissione pastorale giovanile Sport e dal vescovo Talucci. In occasione della visita di papa Benedetto XVI a Brindisi, si stava tentando di costruire un movimento spirituale giovanile che attraverso le arti performative rendesse “visibile” il Vangelo. La visita del pontefice era ispirata a tre momenti fondamentali della vita cristiana: la vocazione di Pietro, la pesca miracolosa e la camminata sull’acqua. Prendendo spunto da questi tre fili conduttori, mi fu commissionata la regia e la coreografia per la veglia che si sarebbe tenuta la sera del 14 giugno sulle scalinate virgiliane. Coinvolsi moltissimi artisti del luogo, anche esponenti di discipline lontane dalla mia, tipo ballerini di break dance, giocolieri. Fu uno spettacolo straordinario. Immaginavo che, una volta concluso quell’evento, sarei tornato a Madrid. In realtà non è stato così: con quell’esperienza compresi definitivamente che la mia arte non doveva restare fine a se stessa, ma poteva amalgamarsi ad altre forme artistiche per arricchire la mia dimensione spirituale”.
Immagino che la filosofia circense l’abbia influenzata non soltanto dal punto di vista strettamente artistico, ma anche da quello personale
“Moltissimo. Il circo ha cambiato la mia vita, mi ha insegnato ad aprirmi, a dare e ottenere fiducia. Venivo dal mondo della danza, nel quale troppo spesso la competizione porta alla solitudine e alla chiusura nei confronti degli altri. Frequentando i circensi, ho imparato a dare la giusta importanza al concetto di scambio e di collaborazione. Nel circo non esiste la brama di emergere individualmente, esiste la condivisione in un continuo assistersi davanti ai rischi del mestiere”.
Per chi ha fatto degli assembramenti la sua fonte di sostentamento e la sua dimensione di vita, il distanziamento sociale è complicato da accettare: come vive questi mesi?”.
“Malissimo. L’epidemia per me è stata una catastrofe emotiva, oltre che economica. Lo ricorderò come uno dei periodi più bui della mia vita. Il contatto con la gente per me è un bisogno viscerale, soprattutto nel circo e negli spettacoli di strada. Mentre il contesto teatrale è più impostato, la performance in strada o sotto il tendone è capace di creare immediatamente un rapporto quasi familiare con il pubblico. Ecco, vivo come uno a cui manca la sua famiglia”.
Chi è oggi Gabriele Cagnazzo?
“Sono sempre in evoluzione, non c’è mai un punto di arrivo. Se dovessi definirmi, direi che sono un artista ha cercato di esportare nel luogo in cui è nato una buona pratica acquisita all’estero. Non volevo chiudere in maniera canonica il mio percorso nella danza, né facendo il coreografo, né aprendo una scuola. Il mondo del circo mi ha dato questa opportunità”.