
È stata confermata nell’ultimo grado di giudizio la condanna a 29 anni di reclusione per il 38enne Giuseppe Difonzo, di Altamura, responsabile dell’omicidio volontario della figlia Emanuela, di tre mesi, morta per soffocamento all’ospedale pediatrico Giovanni XXIII di Bari nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 2016: la sentenza della Corte di Cassazione chiude una vicenda processuale estremamente complessa e lunga oltre nove anni: l’uomo era stato condannato in primo grado a 16 anni di reclusione con l’accusa di omicidio preterintenzionale, reato poi riqualificato nel settembre 2020 in omicidio volontario premeditato nel processo d’appello, all’esito del quale l’uomo era stato condannato all’ergastolo. Poi, nel marzo 2022, La Cassazione aveva annullato la condanna con rinvio, disponendo la scarcerazione di Difonzo: da qui il nuovo processo di secondo grado, nel quale la qualificazione del reato in omicidio volontario è stata confermata, ma sono state riconosciute le attenuanti generiche (motivo per il quale dall’ergastolo si è passati alla reclusione per 29 anni).
Quel provvedimento è stato poi impugnato in Cassazione, dando origine alla pronuncia di ieri, 10 marzo, che determina il rientro in carcere per l’uomo
Secondo quanto ricostruito dalla Procura della Repubblica di Bari, Difonzo avrebbe soffocato la piccola Emanuela durante un ricovero in ospedale avvenuto a causa di una crisi respiratoria provocata da un tentativo di soffocamento precedente, compiuto in casa. E sembra che in altre due occasioni l’uomo avesse già tentato di ucciderla (nel novembre 2015 e nel gennaio 2016), riportando una condanna anche per quei tentati omicidi.
Le perizie psichiatriche, nel corso dei giudizi, hanno stabilito che l’uomo soffre di “disturbo della personalità dai tratti istrionico-narcisistici” e della “sindrome di Munchausen per procura»”, una patologia psichiatrica che spinge il soggetto a provocare o inscenare condizioni patologiche o danni fisici nelle persone di cui ha cura, anche facendo loro del male, per attirare l’attenzione su di sé. Malgrado la diagnosi, Difonzo ha potuto essere condannato, perché, stando al perito, la patologia da cui è affetto non ne esclude, né ne limita, la capacità di intendere e di volere e, quindi, l’imputabilità.
Stando alle motivazioni della sentenza di appello, l’altamurano riteneva “ingombrante e scomoda” la presenza della figlia, perché la sua nascita “lo poneva di fronte alla necessità di assumersi delle responsabilità fino ad allora estranee al suo orizzonte”. E tanto è bastato “per determinarlo a sopprimere la bambina, per tornare a sgravarsi dall’impegno e dallo sforzo di dover simulare un coinvolgimento emotivo verso la figlia”.
Dopo l’annullamento della condanna all’ergastolo, l’uomo, temporaneamente scarcerato, era stato condannato anche a tre anni di reclusione per violenza sessuale su una 14enne figlia di amici di famiglia.
Marina Poci
(immagine di repertorio)