
Giuseppe Ferrarese ha scelto la via del silenzio. Nell’udienza di convalida del suo arresto, per omicidio volontario di Giampiero Carvone, aggravato dal metodo mafioso, il ragazzo di 26 anni si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ora non parla. Ma se lui adesso è in carcere, probabilmente, è perché ha parlato troppo. Da almeno un anno praticamente tutti, al rione Perrino, sapevano che era stato lui ad ammazzare il suo amico, con il quale aveva condiviso anche l’ultimo furto d’auto. Giuseppe lo aveva raccontato alla ragazza cui aveva chiesto di assicurargli un alibi per la sera del delitto, ma anche al suo spacciatore di cocaina e ad altre persone del quartiere, confidando probabilmente sulla “legge” dell’omertà. E invece a “tradirlo” non è stata solo la donna che pensava di aver sottomesso, ma ben quattro collaboratori di giustizia: l’ex boss Andrea Romano, detto Ramarro (che aveva il controllo delle attività criminali al rione Perrino), la moglie Angela Coffa, la sorella di questa Annarita, con il marito Alessandro Polito.
Ad Angela Coffa, secondo quanto dichiarato da quest’ultima e pensando di stare sicuro visto che era la moglie del boss, aveva raccontato non solo di essere stato lui a uccidere Carvone ma gli aveva anche spiegato il movente del delitto: perché dopo aver commesso il furto di un’auto, alla base di tutta la vicenda, lo aveva confessato a Danilo Pugliese, personaggio di spicco della criminalità del Perrino e imparentato con la vittima del furto. In questo modo Carvone, secondo Ferrarese, aveva messo a rischio la sua incolumità e quella dei loro complici.
Se Ferrarese non avesse commesso questi errori, probabilmente favoriti dal fatto che spesso risultava essere sotto effetto della cocaina e quindi con i freni inibitori particolarmente sciolti, se non avesse incrociato una donna incredibilmente coraggiosa da mettere a rischio la propria vita pur di raccontare la verità e se Giampiero non avesse avuto un padre, Piero Carvone, determinato a supportare le indagini, laddove all’inizio stavano andando nella direzione sbagliata, per scoprire il vero volto dell’assassino, oggi non saremmo probabilmente a una svolta.
LA PRIMA INDAGINE
Le indagini della Squadra mobile imboccano una direzione molto precisa e quasi inevitabile: polizia scopre che la mattina prima del delitto a casa del ragazzo erano piombati quattro giovani dello stesso quartiere: Giuseppe Lonoce, 37 anni; Stefano Colucello, 28, Aldo Bruno Carone ed Eupremio Carone, 22 e 21 anni. Avevano sfondato il portone del condominio e si erano presentati minacciosamente in casa, dove c’erano anche i genitori di Giampiero. Quest’ultimo aveva rubato la Lancia Delta di uno dei quattro e l’aveva poi abbandonata danneggiata per strada dopo un incidente. Pretendono il risarcimento del danno.
Poco dopo, di pomeriggio, in tre (Giuseppe Sergio, Giuseppe Lonoce e Stefano Colucello, secondo l’accusa) sarebbero scesi da un’auto nella piazzetta del quartiere ed esploso una fucilata in aria a scopo intimidatorio nei confronti di due ragazzi, considerati amici di Carvone (tra cui Ferrarese) e che vengono ritenuti a loro volta complici nel furto: anche in questo caso chiedono che il danno all’auto venga risarcito. La polizia si trova sul posto pochi istanti dopo e riesce a identificare i due giovani destinatari dell’intimidazione: sono in effetti molto vicini a Carvone: uno è Giuseppe Ferrarese. Quella stessa notte, poco prima delle 2, il ragazzo viene ucciso sotto casa. E’ evidente che la sequenza degli eventi porti gli inquirenti a ipotizzare che essi siano tutti concatenati, sino al tragico epilogo. Ma chi ha sparato?
In una prima operazione la Squadra mobile arresta Lonoce, i fratelli Coluccello e Carone per l’estorsione relativa all’irruzione in casa della famiglia Carvone. Poche settimane dopo Giuseppe Sergio, Stefano Coluccello e Lonoce per la fucilata esplosa nella piazzetta del Perrino. Terza ordinanza, per i fratelli Coluccello e Sergio per la detenzione di una pistola della cui esistenza si apprende durante una intercettazione ambientale. Ma che non viene mai trovata.
C’è un quarto fascicolo che viene aperto, nei confronti di uno dei personaggi sopra citati (del quale non indichiamo il nome in quanto l’inchiesta è ancora in corso e lui è indagato a piede libero) in cui si ipotizza il reato di omicidio volontario. Ma anche lui risulterà totalmente estraneo.
Tutta questa sequenza di ordinanze (esclusa appunto la questione dell’omicidio) viene unificata in un processo davanti al Tribunale di Brindisi che arriva a sentenza: Stefano Coluccello, 7 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione; Giuseppe Lonoce, 6 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione; Aldo Bruno Carone, 3 anni e 6 mesi; Eupremio Carone, 2 anni e 10 mesi; Giuseppe Sergio, 5 anni, un mese e 20 giorni; Alessandro Coluccello, 2 anni di reclusione.
LA SVOLTA INASPETTATA
Fino a questo momento gli inquirenti sono convinti che tra questi nomi ci sia anche il killer di Carvone. L’omicidio viene considerato infatti l’ultimo atto di una serie ri ritorsioni per il furto d’auto.
Ma nel corso del processo è avvenuto un episodio che cambia le carte in tavola. Nel corso del dibattimento sono stati ascoltati come testimoni, in quanto parte lesa, i due amici di Carvone che erano stati vittima della fucilata intimidatoria nella piazzetta e che erano stati identificati grazie al fulmineo intervento della polizia, giunta sul posto prima che potessero allontanarsi. Giuseppe Ferrarese, considerato molto amico di Carvone, viene a lungo esaminato dal pm gli ha contestato una serie di divergenze tra quanto stava raccontando in aula e quello che aveva dichiarato prima alla polizia e poi allo stesso magistrato che lo avevano ascoltato dopo la sparatoria. In sostanza il ragazzo ha riferito che la fucilata era stata esplosa perché sia lui che l’altro che era in sua compagnia, venivano considerati complici di Carvone nel furto dell’auto, cosa che ha dichiarato non essere vera. Rucostruendo i i fatti, ha poi affermato che quella sera andò a dormire a casa della sua fidanzata, che abita sempre al rione Perrino, e che qui durante la notte sentì le detonazioni dei colpi d’arma da fuoco con i quali veniva ucciso Carvone. Ha ricordato che subito dopo decise di lasciare la casa della giovane donna e, spaventato, di essere andato prima a casa della madre in via Cappuccini e poi dalla nonna.
In una delle udienze successive è stata quindi chiamata a deporre in aula la giovane donna indicata dal ragazzo per il suo alibi. Nel corso dell’esame, non solo ha smentito che quella notte si trovava in compagnia del giovane, ma ha affermato che questi le aveva confidato di essere lui l’autore dell’omicidio. La testimone ha raccontato che il 9 settembre 2019, il giorno del delitto, lui quel ragazzo neanche lo conosceva e di aver intrattenuto con lui una breve relazione iniziata solo nel novembre 2019 e durata un mesetto perché quello fu arrestato, per motivi che non hanno a che fare con questa vicenda. E poi ha fornito la sua ricostruzione, che ovviamente deve essere verificata.
Ha spiegato che nell’agosto 2019, un mese prima del delitto, insieme a un’amica si trovava a fare il bagno alla Conca e c’era un ubriaco che le molestava. Ferrarese, che lei non conosceva, intervenne in loro difesa picchiando il molestatore. Una settimana dopo l’omicidio di Carvone, quel ragazzo l’avrebbe fermata per strada, chiamata in disparte e informata che aveva raccontato alla polizia di aver trascorso la sera dell’omicidio a casa sua: “Vedi che io ho dichiarato che stavo a casa tua perché tu sul quartiere Perrino sei l’unica ragazza sola con due bambini, quindi io non potevo dire che stavo a casa di Tizia che tizia – un esempio – è sposata, tu sei l’unica ragazza sola che è a casa sola al Perrino quindi ho dovuto dire che stavo da te. E mi disse che in caso mi dovessero chiamare io dovevo dichiarare che lui stava con me e che al momento degli spari lui è scappato e se n’è andato sotto dove noi chiamiamo “grattacieli” o comunque sia i palazzi rosa, quelli che stanno proprio di fronte casa mia”. Ricordo benissimo che lui mi disse che era o perché aveva avuto una colluttazione con il Carvone».
La giovane donna ha raccontato di essersi spaventata per quella situazione e che il ragazzo le parlò di aver avuto una lite con Carvone. Successivamente ha spiegato che iniziarono a scriversi sul social Instagram e che a novembre tra i due era nata una relazione. E che il ragazzo le avrebbe rivelato di aver ucciso lui Carvone: “Mi ha raccontato che è andato sotto casa di Giampiero, che aveva avuto questa colluttazione, che ci sono stati questi spari; che io poi, altra cosa che mi sto ricordando, gli dissi: “Ma tu non lo volevi uccidere? Lui mi ha confessato questa cosa qui”.
La ragazza ha aggiunto che durante la loro relazione aveva riprovato a parlare dell’argomento, ma lui glissava: “ogni volta che si apriva il discorso lui o mi tagliava in tronco e diceva “basta, quella storia chiudiamola, dimenticala”, oppure quando tentavo sempre di aprirlo, perché c’era sempre questo pallino che tutti mi dicevano “ma tu, com’è che sei fidanzata con Tizio”.
LA DDA NELL’INCHIESTA
Dopo questa testimonianza, che risale a più di un anno fa, l’inchiesta sull’omicidio è passata sotto il controllo della Direzione distrettuale antimafia di Lecce in quanto supportata dalle dichiarazioni dei quattro collaboratori di giustizia. La ragazza è stata nuovamente ascoltata.
La Dda conclude che Giuseppe Ferrarese, come altri giovani coinvolti nella vicenda, è inserito nel gruppo criminoso capeggiato da Davide Di Lena, affiliato a Luca Ciampi, a sua volta appartenente alla frangia mesagnese della Sacra corona unita in quanto affiliato a Daniele Vicentino. A tale frangia è stata sempre contrapposta quella che fa capo a Francesco Campana: Andrea Romano era uno degli affiliati di spessore di Campana.
L’inchiesta non è conclusa: gli investigatori vogliono scoprire se la sera del 10 settembre 2019 Ferrarese agì da solo e chi gli procurò la pistola con cui avrebbe ucciso Giampiero Carvone, in via Tevere, sotto la sua abitazione.