Almeno dieci martellate alla testa e all’addome, tracce di plastica sul cadavere, avvolto in coperte e sacchi da spazzatura e poi legato per facilitarne lo spostamento: è questo l’esito dell’autopsia effettuata sul corpo di Massimo Lodeserto, l’operaio 58enne nato a Torino da genitori oritani, del quale si erano perse le tracce il pomeriggio del 30 agosto scorso e il cui cadavere è stato ritrovato nel primo pomeriggio del 4 dicembre nella cantina di un palazzone popolare nel centro della città sabauda.
Reo confesso dell’omicidio è un pentito di camorra, il 57enne di Frattamaggiore Nino Capaldo, già affiliato al clan Gagliardi-Fragnoli di Mondragone, che si trovava a Torino in quanto inserito in un programma di protezione. Ma con la camorra il movente non ha niente a che fare: come nel più tipico dei casi di scuola, anche nella brutale uccisione di Lodeserto si intrecciano soldi e donne. Una donna, in particolare (Barbara, sembra che si chiami, 44 anni), che prima stava con Massimo, anche in affari, e poi si è messa con Nino, mentre adesso convive con un terzo uomo dal quale ha avuto anche un bambino.
Sembra che circa dieci anni fa avessero, Barbara e Massimo, un’impresa di pulizie in società, dalla quale Lodeserto avrebbe sottratto la considerevole somma di centomila euro per poi perderla al gioco, con ciò determinando il fallimento dell’impresa e mandando in rovina la donna che, proprio per questa ragione, mise fine alla relazione. Dopodiché la signora Barbara, prima di rifarsi completamente la vita con l’attuale compagno, si sarebbe legata al pentito, al quale avrebbe confidato di essere in credito nei confronti di Lodeserto. Il rapporto tra i due, interrottosi per un periodo, sarebbe stato riallacciato recentemente, per cui, ergendosi a giustiziere per amore della donna, Capaldo, che all’omicidio e all’occultamento di cadavere non è nuovo, ha pensato bene di fare fuori Lodeserto. Poi ne ha imboscato il corpo in una delle cantine dello stabile di via San Massimo numero 33, in cui si trova l’alloggio, offerto dalla Comunità di Sant’Egidio, nel quale stava scontando agli arresti domiciliari la condanna a 15 anni irrogatagli per avere ucciso a Mondragone, nella notte tra il 26 e il 27 maggio 2014, il corriere della droga Edokpa Godwin, pestato e morte e poi dato alle fiamme per avere nascosto al clan il carico di sostanze stupefacenti che custodiva.
Gli inquirenti sono arrivati a lui attraverso l’analisi delle intercettazioni telefoniche. Ormai da mesi, Capaldo minacciava quotidianamente di morte Lodeserto, intimandogli di riconsegnare a Barbara il denaro sottrattole. Delle minacce erano stati testimoni in più occasioni anche gli inquilini di via Cernaia, il condominio signorile nel quale la vittima abitava (certamente al di sopra delle sue possibilità, considerato che si tratta di un palazzo d’epoca nel quale si trovano studi professionali e abitazioni di torinesi benestanti). Secondo la ricostruzione del quotidiano La Stampa, qualcuno avrebbe riferito agli investigatori delle visite sempre più frequenti di Capaldo che, una volta, non trovando in casa Lodeserto, sarebbe andato via urlando “Se quello non lo ammazzo io, non lo ammazza nessuno”.
Quanto alla dinamica dell’omicidio, durante l’interrogatorio di garanzia reso il 6 dicembre, il pentito avrebbe raccontato ai Carabinieri che aveva chiesto a Lodeserto di raggiungerlo nella sua abitazione di via San Massimo per un chiarimento, aggiungendo che l’uomo si sarebbe presentato con una pistola (della quale, però, non è stata trovata alcuna traccia). La discussione, concentrata sulla restituzione a Barbara della somma di cui Lodeserto si era appropriato dieci anni fa, sarebbe degenerata (“ho perso la testa e l’ho colpito”, queste le parole del camorrista). Capaldo ha anche precisato di avere tenuto il cadavere per un paio di giorni nella sua abitazione, prima di spostarlo nel posto in cui è stato ritrovato. Lo hanno scovato i cani molecolari dei Carabinieri di Bologna, addestrati proprio al ritrovamento di cadaveri, ai quali i colleghi torinesi, una volta che il quadro indiziario si è chiarito, hanno chiesto supporto.
Dunque per più di tre mesi, senza che nessuno si sia mai accorto di nulla, la cantina di quel palazzone ha custodito il corpo di Massimo Lodeserto, sepolto sotto masserizie di ogni tipo (attrezzi da lavoro, vecchi condizionatori, sacchi di immondizia). Gli animali hanno impiegato più di due ore per individuarlo: malgrado lo stato di decomposizione ormai molto avanzato, l’odore di muffa e di spazzatura, tipico degli ambienti chiusi, ha impedito ai residenti dello stabile, e persino al proprietario stesso del locale, di fare la macabra scoperta. Il che rende bene l’idea del degrado della struttura. A onor del vero, gli inquilini di via San Massimo, che in una lettera all’Agenzia Territoriale della Casa (l’ente torinese che si occupa dell’assegnazione degli alloggi dello stabile) avevano lamentato la presenza di “gente socialmente pericolosa” negli appartamenti, qualcosa di strano lo avevano notato. Qualcuno si è lasciato scappare ai Carabinieri che Capaldo negli ultimi mesi frequentava un po’ troppo il vano cantine, come se dovesse periodicamente controllare qualcosa. E sembra che questo qualcuno gli abbia anche chiesto se avesse qualche problema o se avesse bisogno di qualcosa, ma il camorrista avrebbe semplicemente ringraziato, negando qualunque necessità.
In ogni caso, al di là delle ammissioni di Capaldo, le indagini coordinate dal sostituto procuratore di Torino Marco Sanini proseguono per verificare una serie di aspetti non ancora del tutto chiari: manca all’appello l’arma con cui, a detta del pentito, Lodeserto avrebbe minacciato il suo assassino e, cosa più importante, non sono ancora stati trovati oggettivi riscontri riguardo al movente che, in mancanza dell’effettiva dimostrazione del debito nei confronti di Barbara, appare un po’ debole.
Qualche giorno dopo che la famiglia aveva perso i contatti con Massimo, la scomparsa della vittima era stata denunciata dal fratello Giacomo, che si era anche rivolto alla trasmissione di Rai Tre “Chi l’ha visto?” e aveva sin da subito escluso l’ipotesi dell’allontanamento volontario. Le creme per la vitiligine poggiate su una sedia nell’androne del palazzo, il cestello della lavatrice pieno di panni da lavare, un piatto di pasta scondito nel cucinino, il letto disfatto: quando Giacomo era entrato nell’abitazione di suo fratello, gli era parso immediatamente che qualcosa non tornasse. Tutto sembrava essere stato lasciato sospeso, come per un’uscita improvvisa a cui avrebbe fatto seguito un ritorno imminente. Un altro fratello lo aveva sentito proprio la mattina della scomparsa. Una telecamera del palazzo nel quale abitava aveva catturato l’immagine di Massimo Lodeserto accanto ad un amico intorno alle 15 del 30 agosto. Poi era stato visto da alcuni vicini di casa intorno alle 17. Infine, come ultima traccia della presenza in vita, l’ultimo accesso sul social WhatsApp, registrato poco dopo le 18. Dopodiché più nulla. Alla famiglia, pochi giorni prima, aveva detto che non sarebbe tornato in Puglia per le vacanze, perché alle prese con un nuovo impiego in una ditta di pulizie, nella quale era stato assunto da poco.
Ultimo di quattro fratelli, un periodo trascorso in carcere a causa di una condanna per furto e appropriazione indebita, Massimo Lodeserto, a detta del fratello, stava cercando di riprendere in mano le fila della sua vita, tenendosi alla larga dai guai e ricostruendo un orizzonte lavorativo onesto, per quanto modesto. Ma Nino Capaldo non è stato d’accordo.
Marina Poci
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