
La stagione teatrale 2016/2017 del Nuovo Teatro Verdi di Brindisi continua all’insegna della qualità con una delle opere più rappresentate e apprezzate di Eduardo de Filippo: “Filumena Marturano”. Così nota e amata che non è per nulla facile portarla in scena, poiché, ogni volta, il paragone con le numerose versioni teatrali precedenti pende inevitabilmente sul capo degli attori e del regista di turno.
Originariamente scritta da Eduardo per sua sorella Titina (la sua prima magistrale interpretazione è rimasta nella storia), “Filumena” fu rappresentata poi da Regina Bianchi, Pupella Maggio, Valeria Moriconi, Isa Danieli, Lina Sastri e Mariangela Melato: le attrici più talentuose della nostra tradizione teatrale. Né si può ignorare, che, chiunque abbia il coraggio di vestirne i panni, debba fare i conti anche con l’immensa Sophia Loren di Matrimonio all’Italiana, diretto da Vittorio De Sica nel 1964.
Con questi presupposti ci vuole coraggio a riproporre “Filumena Marturano”, un vero e proprio monumento, col suo carico di memorie, di rimandi e con lo status di personaggio tagliato su misura per Titina De Filippo.
Ma il teatro è questo: un misto di incoscienza, passione e coraggio. Senza queste tre componenti non si può fare.
“Filumena Marturano” tocca da vicino il tema delicato dei figli naturali e il loro riconoscimento. Filumena, ex prostituta, si finge in fin di vita per strappare il matrimonio a don Domenico, l’uomo che l’ha mantenuta, accolta in casa, tradita e messa da parte, al fine di dare un nome e un padre ai suoi tre figli. Solo uno di loro è il figlio di Domenico ma Filumena non svelerà mai la sua identità affinché gli altri due non subiscano disparità. «E figli so figli – dice – e so tutti uguali».
Nella dinamica della storia e dei personaggi, nella versione a cui abbiamo assistito mercoledì 1° febbraio, sapientamente diretta dalla regista cult Liliana Cavani (che a tratti ha evocato atmosfere viscontiane), si inserisce perfettamente Mariangela D’Abbraccio.
La sua “Filumena” si colloca nell’alveo della tradizione a cui il personaggio appartiene, al punto da ricordare quella di Regina Bianchi. Come lei, l’attrice napoletana ha studiato Filumena nel dettaglio: ex prostituta, amante devota e sottomessa, tre volte madre orgogliosa e ribelle, pronta a lottare per ottenere che i figli abbiano un nome rispettabile.
La D’Abbraccio è perfetta per questo ruolo: sempre giusta, negli assalti verbali e nei silenzi, capace di entrare in quei panni come fossero i suoi, assumendo nei gesti e nel volto, la sofferenza di chi cela un segreto finché la verità non abbia la possibilità di diventare dignità.
È fiera Filumena, non di quello che è stata no (la prostituta per fame di Vicolo San Liborio), ma di quello che è diventata, capace di pretendere, dopo venticinque anni vissuti “da moglie” accanto a Don Mimì, un suggello, un riconoscimento non fine a se stesso, né per porre fine alle tante umiliazioni subite, ma proprio per piegare la legge all’unica cosa giusta da fare: dare ai tre figli la sicurezza economica che il cognome “Soriano” rappresenta.
Filumena lotta con i mezzi che ha, fino alla simulazione e alla menzogna.
E’ affascinante nella sua bellezza violenta e ridondante, ma sa essere commovente quando si abbandona alla tenerezza dei ricordi, come fa nel monologo della Madonna delle Rose, a cui si era rivolta, disperata, per chiederle cosa avrebbe dovuto fare una volta saputo che era rimasta incinta, perché «i figli so’ figli».
Lo stesso discorso fatto per Filumena vale per il personaggio di Domenico Soriano, interpretato (solo per citarne alcuni) dallo stesso Eduardo (più che un attore, una maschera del teatro di tutti i tempi, una vera icona), da Antonio Casagrande, da Massimo Ranieri e, al cinema, dal “mostro” Marcello Mastroianni.
Ho trovato l’ottimo Geppy Glesijeses un po’ defilato rispetto alla D’Abbraccio che giganteggia nello spazio scenico: lui interpreta un Don Mimì piuttosto stanco e, ritengo, volutamente in ombra perché i riflettori si orientino tutti su Filumena e il suo dramma: alto, magro, di un’eleganza un tantino scomposta, un perfetto interprete eduardiano. Forse è la lettura della Cavani a generare questa leggera disparità tra i due personaggi. L’occhio della regista è molto fedele a quello di Eduardo. E poiché l’opera altro non è che un inno alla donna scritto da un uomo, questo spiega il passo indietro, appena percettibile, di Don Mimì rispetto a Filumena la guerriera.
Il momento clou della vicenda si tocca con l’entrata in scena dei tre figli: Umberto, Riccardo, Michele. Tutti e tre diversi, ma tutti e tre uguali agli occhi della madre. Uno soltanto è di Soriano ma non è dato sapere quale. Filumena è consapevole che è troppo tardi per sperare di resuscitare una famiglia fondata sull’amore, tuttavia ha lottato tutta la vita per legare tutti e cinque almeno sotto l’aspetto economico: «Dummì, o’ bello de’ ‘figlie l’avimmo perduto…’Figlie so chille che se teneno mbraccia, quando so’ piccirille ca te danno preoccupazione quanno stanno malate e nun te sanno dicere che se sénteno… che te corrono incontro cu’ è braccelle aperte, dicenno: “Papà” … Chille ca’ è vvide venì d’ ‘a scola cu’ ‘e manelle fredde e ‘o nasillo russo e te cercano ‘a bella cosa… ».
Tornata dall’altare, dove ha finalmente ottenuto la garanzia del cognome e di un padre per tutti e tre i figli, Filumena può deporre le armi e abbandonarsi ad un pianto liberatorio. Finalmente ha la famiglia che si merita e per la quale ha combattuto. «Dummi’, sto chiagnenno… Quant’è bello a chiàgnere… ».
E Domenico (stringendola teneramente a sé)«È niente… è niente. He curruto… he curruto… te si’ mmisa appaura… si’ caduta… te si’ aizata… te si’ arranfecata… He penzato, e ‘o ppenzà stanca… Mo nun he ‘a correre cchiu, non he ‘a penzà cchiu… Ripòsate! (…)’E figlie so’ ffiglie… E so’ tutte eguale… Hai ragione, Filume’, hai ragione tu! ».
Don Mimì non lo dice, ma le donne, i cavalli, la bella vita, non sono riusciti a dargli un’emozione neppure lontanamente simile a quella che prova quando, per la prima volta, i tre ragazzi lo chiamano spontaneamente “papà”.
Un allestimento perfetto come un meccanismo sapientemente oliato. Eccellenti gli altri attori del cast: strepitosa la Rosalia Solimene interpretata da un’applauditissima Nunzia Schiano, con Mimmo Mignemi (Alfredo Amoroso), Gregorio Maria De Paola, Agostino Pannone ed Eduardo Scarpetta (i tre figli di Filumena), Elisabetta Mirra (Lucia), Ylenia Oliviero (nei panni di Diana, infermiera della moribonda Filumena e amante di Domenico), Fabio Pappacena (l’avvocato Nocella).
Perfetta la ricostruzione storica delle scene di Raimonda Gaetani, che dalla stanza da letto dove si è appena celebrato il matrimonio tra Domenico e la “moribonda” Filumena ci porta nel salotto buono di casa Soriano, dove i due cavalli che corrono dipinti sulla grande tela appesa sul camino, diventano il simbolo di una giovinezza e una grandezza oramai trascorse (“Te ricuorde, Alfre’, quanno ‘e cavalle nuoste currevano?”).
Accuratissima anche la ricerca dei costumi e degli oggetti di scena. Le musiche di Theo Teardo enfatizzano particolarmente il conflitto interiore che dilania Domenico Soriano per tutto lo sviluppo della narrazione teatrale.
La galleria delle grandi attrici che hanno interpretato il personaggio di “Filumena Marturano” può annoverare sicuramente un’altra stella: Mariangela D’Abbraccio.
Giusy Gatti Perlangeli