Oggi, 13 di agosto, Fidel Castro sta compiendo novant’anni e, anche se con un po’ di sordina, continua ancora, finanche fuori da Cuba, a stimolare qualche titolo di cronaca, anche se più opportuno e consono al personaggio sarebbe forse attendere con pazienza che sia la storia a parlarne e a giudicalo. Un giudizio su Fidel, che per essere sufficientemente sereno abbisognerà che il tempo trascorra ancora e lo separi completamente dalle vicissitudini, tuttora quotidiane.
Un giudizio, quello della storia, che probabilmente dovrà soprassedere in fretta su quell’indovinato brand “La storia mi assolverà”: titolo del magistrale intervento con cui nel lontano 1953 il giovanissimo avvocato Fidel si autodifese di fronte al tribunale che lo giudicava di ribellione contro lo stato cubano. La storia dovrà soprassedere in fretta, sia perché si trattò di un episodio troppo breve a confronto dei seguenti cinquanta e più anni durante i quali Fidel Castro fu protagonista assoluto della storia di Cuba e alle volte di spicco di quella del mondo, e sia -e soprattutto- perché praticamente tutto dell’agire di Fidel in tutti quei cinquant’anni contradisse flagrantemente quel suo intervento, che così iniziava e così seguiva:
“Il diritto alla ribellione contro il dispotismo, signori giudici, è stato riconosciuto dalla più lontana antichità sino al presente, da uomini di tutte le dottrine, di tutte le idee e di tutte le credenze… Rinunciare alla propria libertà è rinunciare alla qualità dell’uomo, ai diritti dell’umanità, e anche ai doveri. Tale rinuncia è incompatibile con la natura dell’uomo e togliere tutta la libertà alla volontà è togliere ogni moralità alle azioni… etc. etc.”
Ma non è di giurisprudenza o di storia e tanto meno di politica che oggi voglio qui trattare: molto più amenamente e più rilassatamente -dato anche il clima ferragostano- voglio invece raccontare di un episodio che mi vide involontario nonché secondario protagonista a Cuba qualche anno fa: un episodio che mi portò al cospetto del comandante Fidel, ospite a casa sua con altri miei amici e con mia moglie Mariana, protagonista centrale del racconto.
Era fine ottobre del 1988 quando visitai Cuba per la prima volta e, tanto per entrare nel giusto contesto del racconto, a quel tempo a Cuba c’erano ancora i russi o meglio, i sovietici, a farla da padroni assieme ai visitanti occidentali, negli alberghi e nei ristoranti di lusso, nei negozi e nei locali notturni alla moda, eccetera, tutti posti naturalmente e rigorosamente permessi ai soli stranieri possessori dei vituperati dollari americani ed assolutamente proibiti ai cittadini cubani, con la ovvia eccezione degli altissimi dirigenti del partito.
Ci andai dalla vicina Caracas per partecipare al XX Congresso UPADI (Unione Panamericana Associazioni Di Ingegneri) che si tenne a La Havana nel Palazzo dei Congressi. I partecipanti provenivamo da tutti i paesi d’America e io rappresentavo l’Università Centrale del Venezuela assieme al preside della facoltà di ingegneria ed un professore dell’Università La Sapienza di Roma, Gianfranco Meucci, che vi partecipava in quanto residente a Caracas da qualche anno, in missione di intercambio accademico.
Per noi stranieri La Havana celava, ed allo stesso tempo mostrava, tanti spunti interessanti e, specialmente per me ed il mio collega e simpaticissimo amico italiano, anche romantici: dalle spettacolari auto americane anni 40 e 50 tutte rigorosamente precedenti al 1° gennaio 1959, alle attempate operaie delle fabbriche dei famosissimi e buonissimi sigari cubani, dagli edifici del centro storico bellissimi anche se ormai assolutamente fatiscenti con la loro caratteristica architettura caraibica piena di merletti ed altre raffinate decorazioni, al famoso lungomare con il suo emblematico faro contro il quale si infrangono strepitosamente le onde del mare dei Caraibi nei frequenti giorni di vento forte.
E poi, il mondialmente famoso night club Tropicana, sopravvissuto alla rivoluzione anche se naturalmente statalizzato assieme a tutte le sue luci, i suoi musicisti, i cantanti, gli attori e soprattutto le bravissime ballerine che continuavano a “deliziare” i turisti che visitavano La Havana.
Una citazione speciale merita poi quel piccolo vecchio bar che, con il bancone abbastanza schiacciato sull’entrata prospicente allo stretto marciapiede e con le sue due salette annesse, si trovava e si trova ancora in una anonima viuzza del centro dell’Havana: “La bodeguita del medio” anch’esso sopravvissuto alla rivoluzione conservando ancora fino a quei giorni gli stessi mobili, gli stessi arredi e le stesse pareti integralmente tappezzate con graffiti, posters pubblicitari e fotografie con dediche di avventori indistintamente famosi ed anonimi, primo e certamente più famoso tra tutti Ernest Hemingway, lo stravagante scrittore americano autore di tanti capolavori letterari, che visse per circa vent’anni a La Havana dal 1938 fino alla sua tragica morte avvenuta nel 1961. Hemingway era un cliente fisso de La bodeguita del medio e la leggenda vuole che fu proprio lui a dare un contributo notevole a far creare il famoso “Mojito”.
Tornando al congresso degli ingegneri americani, il programma di cinque giorni densi di conferenze, gruppi di lavoro, visite tecniche ed incontri accademici, prevedeva naturalmente una solenne cerimonia di apertura ed anche una formale cerimonia di chiusura, ed era abbastanza consuetudine a quei tempi che a Cuba il presidente Fidel Castro non perdesse quasi mai l’occasione di inaugurare congressi internazionali rifilando ai partecipanti i suoi discorsi fiume decantando le glorie ed i successi della rivoluzione e denigrando al contempo l’impero del capitalismo responsabile assoluto ed indiscusso, guai a dubitarne minimamente, di tutti i mali presenti passati e futuri dell’intera umanità. Però quella volta Fidel Castro non partecipò all’inaugurazione e, durante i seguenti giorni del congresso, gli amici cubani cominciarono a diffondere informalmente però insistentemente voci e notizie rassicuranti sul fatto che, certamente, il comandante avrebbe presenziato la chiusura di quell’importante congresso.
E fu così che in un’atmosfera da suspense tipo teleromanzo, giunse l’ultimo giorno del congresso che si sarebbe concluso verso mezzogiorno di quel sabato con la protocollare cerimonia di chiusura. Tutte le signore delegate al congresso e tutte le signore accompagnanti dei congressisti, tra cui in prima fila Mariana e le sue amiche, vollero assistere a quella cerimonia di chiusura: strano, normalmente è solo una …rottura, da cercare di risparmiarsi a tutti i costi e da evitare con qualsiasi banale scusa, invece quella volta la propagandata presenza del fotogenico personaggio, carismatico ed in certa misura ancora romanticamente leggendario tra le cinquantenni ed i cinquantenni presenti al congresso che lo ricordavamo con il sigaro in bocca ed a cavallo della jeep entrando trionfalmente all’Havana in quell’ 8 gennaio 1959, costituiva una occasione da non perdere, pensando di poter scattare una foto ricordo da mostrare ad amici ed amiche di ogni proprio paese.
Avvicinandosi mezzogiorno la tensione comincia a serpeggiare nell’enorme sala, aumentando con il passare dei minuti e con il susseguirsi dei vari oratori protocollari e dei loro insipidi discorsi di circostanza. Comincia anche a far caldo per l’ora, per la noia e per l’aria condizionata che comincia a fiaccare. Ormai non c’è più possibilità alcuna che arrivi il comandante. Pazienza, organizziamoci e via, cominciamo a sgattaiolare con sperimentata dissimulazione prima che l’ultimo discorso concluda. Coraggio, abbiamo ancora un pomeriggio ed una notte di svago che ci attendono prima del ritorno a casa.
Però, qualche fila più in là comincio a notare una certa concitazione tra alcuni dei presenti, sguardi d’intesa, sussurri, accostamenti frettolosi, e finalmente il mio preside di facoltà mi raggiunge e mi dice: “Gianfrà, andiamo al Palazzo di Governo, Fidel Castro ha invitato a pranzo una selezione degli stranieri partecipanti al congresso, saremo una ventina in tutto tra i rappresentanti dei vari paesi, dillo subito a Mariana ed organizziamoci per andare, bisogna essere al palazzo all’una e mezzo in punto, tra meno di un’ora”. L’eccitazione delle nostre signore lievita istantaneamente tra il timore che possa trattarsi di una bufala lanciata da qualche amico sornione. Ed invece no, tutto incredibilmente vero, ed allora via di corsa in albergo, a cambiarsi, ad imbellettarsi. Assolutamente inimmaginabile, direttamente al cospetto del comandante, a casa sua, a pranzo con lui, da tu a tu, che sorte insperata!
l Palazzo di Governo era in centro città, in piazza della rivoluzione, ampio ma non troppo alto anche se sollevato sul piano di terra da una ventina di scalini estesi sull’intera larghezza del corpo centrale del palazzo. Architettura in classico stile anni ’50, dalle linee rette e modernista con influenze di razionalismo tedesco, l’aveva fatto edificare il dittatore Batista inaugurandolo come Palazzo di Giustizia nel 1957. Sul cancello d’entrata, dopo un paio di guardie uniformate, c’era una specie di corpo di guardia con molti funzionari civili, tutti abbastanza anziani, da 60 anni in su, e ci fu poi raccontato fossero gli incaricati della sicurezza personale del comandante, tutti rigorosamente reduci rivoltosi della Sierra Maestra.
Per poter accede agli interni bisognava superare un normale controllo corporale da palpeggio, onde evitare l’introduzione di armi occulte, invero un controllo non eccessivamente rigoroso, quanto invece meticoloso in relazione all’obbligo di dover lasciare lì al corpo di guardia qualsiasi borsa o borsetta e qualsiasi camera fotografica o da presa e qualsiasi libro, rivista o materiale scrivibile in generale. Peccato! In molti si erano portati dietro la camera fotografica, o qualche rivista con la foto di Fidel, o qualche suo libro: Mariana qualche giorno prima aveva comprato in una libreria dell’Havana l’edizione spagnola appena pubblicata del libro del nostro giornalista Gianni Minà ¨Un encuentro con Fidel¨ e naturalmente dovette lasciarlo in quel corpo di guardia su uno degli scaffali adibiti allo scopo.
Già all’interno, ed avviati verso il salone del ricevimento scortati dalle guardie civili, l’atmosfera si era fatta fresca, anzi rinfrescante, non per l’aria condizionata che non c’era, ma per la stessa architettura degli interni, minimalista e con abbondanza di marmi bianchi, magistralmente combinati con legno marrone levigato e soprattutto con spazi semiaperti intercomunicanti con l’esterno attraverso cortili e pozzi luce armoniosamente corredati da folte piante ed alberi tropicali.
Nella stanza immediatamente antecedente il salone, troneggiava un gran bel ritratto ad oleo di Fidel Castro fattogli dal famoso pittore ecuadoriano Guayasamin, amico suo e che anch’io avevo conosciuto una decina di anni prima quando lo avevo visitato qualche volta nella sua galleria-atelier di Guayaquil, negli anni del mio servizio civile in quella città ecuadoriana.
Il salone ancor più bello, molto amplio e sullo stesso stile, sobrio e con tanti marmi chiari, legni scuri e luce naturale proveniente dai vari spazi aperti, sapientemente ubicati e riccamente ed armoniosamente adornati da bellissime e curatissime piante ed alberelli. Un lungo tavolo era bandito a buffet, e dopo una decina di minuti dal nostro arrivo i camerieri iniziarono a servire un vino ben freddo: il rinomatissimo bianco di Balatonelle, proveniente dai vigneti delle rive ungheresi del lago di Balaton.
Quindi il capo sala ci invitò a servirci dal buffet… il comandante sarebbe arrivato da lì a poco per salutarci: “quando arriva, mi raccomando non accalcatevi, rimanete dove siete sparsi in gruppetti lungo il salone e lui verrà a salutarvi tutti, assolutamente tutti”. Meno male che tardò un bel po’ ad arrivare, perché il buffet era semplicemente squisito oltre che raffinato: ricordo in particolare una gran varietà di pesci sapientemente cucinati e serviti accompagnati da vari frutti tropicali a mo’ di decorazione e che però al contempo infondevano al pesce i loro particolarissimi aromi. E poi le uova di storione, il caviale, e quelle di salmone, il caviale rosso, tutto rigorosamente russo, anzi sovietico!
Saranno state le tre circa, quando dal fondo del salone intravediamo l’inconfondibile figura di Fidel Castro, con la sua enorme persona e personalità, alto, in grigioverde e barbuto, accompagnato da tre o quattro guardie civili in abito scuro, i soliti vecchietti di cui prima. Come da manuale, Fidel si avvicina al primo gruppetto di ospiti che intercetta sul suo cammino e si sofferma a chiacchierare, dà la mano a chi gliela tende, fa qualche domanda pertinente al paese di provenienza dell’ospite interpellato e per ogni risposta si intrattiene svariatissimi minuti a commentare, dilungandosi in soliloquio senza che a nessuno venga in mente di interromperlo.
Finalmente ci siamo, il comandante è tra noi, ci dà la mano uno ad uno chiedendo il nome e la provenienza. Fidel Castro chiede al presidente degli ingegneri notizie sulla produzione dell’impianto idroelettrico del Gruri, nell’Amazonia venezuelana, a quel tempo il più grande al mondo dopo la recentemente inaugurata fase finale della costruzione. Il presidente degli ingegneri comincia a balbettare qualche numero guardandosi attorno e cercando con lo sguardo un soccorso che non arriva, o meglio non fece in tempo ad arrivare allorché Fidel comincia lui a fare sfoggio di numeri su produzione elettrica, su volumi di calcestruzzo della diga, sui ritmi vertiginosi della costruzione, e poi ancora numeri, sugli altri impianti idroelettrici sudamericani, su quello anch’esso famosissimo di Iguasú nel triplice confine tra Brasile Argentina e Paraguay.
Non erano certo numeri a vanvera i suoi, né di certo se li era ripassati per l’occasione, ma si trattava semplicemente di un normale segno di quella sua proverbiale memoria ed affezione alle statistiche ed ai numeri in generale, in tante altre occasioni da lui sfoggiata. Da lì a poche settimane in Venezuela ci sarebbero state le elezioni presidenziali e lui volle confidarci, pregandoci sornionamente di mantenerlo in segreto, che lui tifava per Carlos Andres Perez, suo amico socialdemocratico. Perez vinse le elezioni, però dovette subire il colpo di stato del colonnello Chavez decisamente appoggiato da Fidel Castro: strano senso che hanno dell’amicizia certi capi politici!
Mentre Fidel parlava animatamente con noi professori dell’Università Centrale del Venezuela, chiedendoci notizie del movimento studentesco al quale si sentiva molto affezionato da quando visitando Caracas nei primi anni ’60 lo avevano ricevuto trionfalmente e da quando quegli stessi studenti si erano a suo sapere coperti di gloria ai tempi del ’68. Io avevo cercato con lo sguardo di incontrare Mariana che però si era allontanata dal gruppo e me ne rammaricai perché avevo detto a Fidel Castro che anche lei era stata studentessa in quell’università in quegli anni ’60 e naturalmente avrei voluto segnalargliela.
Peccato, probabilmente era andata in bagno e non potevo neanche allontanarmi a cercarla perché la situazione si stava disordinando, dato che gli ultimi due gruppi ormai stanchi dell’attesa a causa della prolungata sosta di Fidel Castro con i venezuelani, si erano avvicinati di soppiatto e ci avevano poco a poco circondati, costituendo di fatto un solo grande gruppo intorno a Fidel.
Dopo qualche minuto intravedo Mariana che dall’ingresso della sala si dirige frettolosamente verso il nostro gruppo, coprendo qualcosa con le mani tenute stranamente basse e schiacciate sulla pancia. Senza avere il tempo di discernere troppo su quanto avevo visto, me la ritrovai affianco in prima fila dopo che era riuscita ad infilarsi, non so come, dal sempre più folto gruppo che circondava Fidel.
Dissi a Fidel: “Ah, ecco mia moglie, la studentessa della Centrale”, ma prima ancora che Fidel potesse aggiungere qualcosa, Mariana gli si rivolge con tono deciso offrendogli il libro aperto di Gianni Minà con una penna, e gli dice: “Fidel, firmami il libro!”
Di colpo un silenzio tombale. Fidel la guarda, riflette un attimo ed esclama: “Eh no, non posso firmartelo, perché questa è una riunione collettiva e se lo firmo a te devo poi firmare qualcosa a tutti gli altri!” Un teso silenzio ripiomba tra tutti noi vicinissimi a Fidel e dopo un istante, che a me parve infinito, Mariana esclama: “Beh si, è certo che siamo in una riunione collettiva, però, …Fidel è sempre… Unico!” Il comandante acciglia lo sguardo, esita un attimo, poi di getto prende in mano il libro e la penna, …e firma di botto. Poi, svelando un sorriso con i suoi occhi acuti ancor più che con le sue labbra seminascoste dalla barba, restituisce il libro e si accinge con mossa decisa a continuare il suo giro tra gli ospiti.
Incredibile ma vero, a Mariana era riuscito l’impossibile: dal convincere il vecchietto di guardia che custodiva le borsette e gli altri averi depositati dagli ospiti a fargli pendere il libro adducendo una qualche improbabile scusa, all’attraversare la considerevole distanza che dal corpo di guardia portava fino al salone del ricevimento nascondendo goffamente il libro tra le proprie mani, al trovare la fermezza necessaria a chiedere con decisione a Fidel di firmargli il libro e finalmente, a quella geniale presenza di spirito con la quale controbattere il rifiuto di Fidel, toccando sottilmente il tasto di quella naturale debolezza umana grazie alla quale la pubblica adulazione riesce a smuovere anche gli uomini più sperimentati.
Da quel giorno in poi e per tanti anni ancora dopo quel simpatico episodio, tra tutti i partecipanti al congresso e finanche tra chi dai vari paesi non era neanche andato a Cuba per quell’occasione, Mariana rimase aneddoticamente celebre per aver così rocambolescamente strappato quella firma a Fidel Castro.
Gianfranco Perri
(Nelle foto Perri alla Bodeguita del medio: lo storico bar di Hemingway dove si inventò il famoso Mojito)