Cena al chiaro di luna – I racconti dal balcone

di Ida de Giorgio per il7 Magazine

Finalmente Alice aveva accettato di cenare con me. A dire il vero, era stata lei ad autoinvitarsi. Ci eravamo incontrati in fondo al corridoio, non certo per caso. Intorno alle dieci lei usciva dal suo ufficio per prendere un caffè alla macchinetta e io, appena sentivo i suoi tacchi transitare davanti alla mia porta, mi precipitavo a fare la stessa cosa, fingendo un incontro casuale.
“Sabato sera ci sarà la luna piena”, aveva detto, mentre soffiava sulla tazzina, “purtroppo da casa mia non riuscirò a vederla. Sarà una luna speciale, la più splendente degli ultimi anni”.
Avevo vinto la mia timidezza, dicendo tutto d’un fiato: “Vieni da me, ho un attico al sesto piano”. “Bene”, aveva risposto lei, “Alle nove. Porto il vino”.
Ero riuscito solo ad annuire con la testa, sopraffatto dall’emozione. Ne ero innamorato da quasi un anno, praticamente dal primo momento in cui l’avevo vista. Una roba da film. Era una tipa frizzante e sembrava spandere polvere magica intorno a sé, come la fatina Trilly. Accanto a lei mi sembrava di volare, senza staccarmi da terra però, visto che ero più simile ad un orco che a Peter Pan. Tornato a casa, il mio entusiasmo scemò. Quella sarebbe stata l’occasione della vita, non potevo commettere errori. Non sapevo che gusti avesse, in fatto di cibo, ma una donna così fine e gentile non era certo tipo da riso, patate e cozze. Dovevo sforzarmi di trovare un menù raffinato e magari anche vagamente erotizzante: non volevo approfittare della situazione, ma speravo che, complice la notte romantica, almeno un bacio sarei riuscito ad ottenerlo. Insieme alla promessa di rivederci.
All’improvviso mi ricordai della sorella del mio amico Nando. Questa Lucia non faceva che vantarsi di essere una chef e di aver frequentato uno stage al ristorante di Carlo Cracco, anche se, dopo tre mesi a Milano, aveva finito per lavorare in una pizzeria di Latiano.
“Una cena sobria e raffinata”, mi disse, con un accenno meneghino così improbabile da farmi trattenere dal ridere, “Mini porzioni, non bisogna abbuffarsi a tavola, si deve degustare il cibo e alzarsi con la fame. Così fa la gente chic”. Presi appunti, scoprendo ingredienti dei quali non avevo mai sentito parlare. Come antipasto, tuorlo d’uovo marinato alla Cracco, poi risotto al cioccolato e pere, carpaccio di pescespada agli agrumi e mini-porzione di dolce al cucchiaio. Proprio nel senso che la dose del dolce doveva essere contenuta in un solo cucchiaio.
Avevo qualche dubbio sulla possibilità di trovare una pera giapponese dal mio fruttivendolo, ma pensai che anche una normale sarebbe andata bene, tanto né Cracco né Lucia avrebbero dato voti al mio risotto.
La mattina del giorno fatidico, ero uscito a fare la spesa con la mia lista. Ero riuscito a trovare più o meno tutto, anche se il proprietario della pescheria, alla richiesta di centocinquanta grammi esatti di pescespada possibilmente spinato e diviso in due porzioni, mi aveva guardato come fossi un pezzente e aveva aggiunto una manciata di acciughe per buon peso.
Ho cominciato col preparare il tuorlo, che doveva riposare in frigo prima di essere servito. Ho constatato con un certo sgomento che il pesce, a contatto col succo degli agrumi, si restringeva a vista d’occhio. Ho pesato ottanta grammi di riso, poi ho aggiunto quattro chicchi. Il numero minimo per saggiarne la cottura. Più sfaccendavo, più fame mi veniva. Ho aperto un pacco di tarallini, come companatico di uno spicchio di cacio cavallo e qualche fettina di capocollo. Giusto per aggiustarmi lo stomaco, come diceva sempre mio nonno. Anche uno spuntino così, “alla crudele”, mi sembrava più appetitoso del menù raffinato, ma sicuramente Lucia ne sapeva più di me, di cene eleganti.
Ho apparecchiato sul terrazzo. Una splendida notte stellata, con la luna luccicante sui tetti. Ho messo un papillon, sotto la giacca nera. Alice è arrivata con una bottiglia di primitivo e un prosecco, già freddo. Abbiamo brindato e poi ho cominciato a servire la cena. L’uovo era talmente misero che ho dovuto metterlo in una tazzina da caffè perché sembrasse più consistente. L’ha guardato perplessa, l’ha assaggiato con la punta del cucchiaino, poi ha addentato un grissino. “Non ti sognare di mettere pane a tavola”, aveva ordinato Lucia.
Ha conservato la stessa espressione di fronte al risotto al cacao, che poteva essere degustato con tre forchettate. Quattro, ad avere una bocca piccola. Nel frattempo, ha bevuto due bicchieri di prosecco e uno di primitivo. Ho pensato intensamente a Cracco, immaginandolo preda di tremendi acufeni, prima di portare in tavola il pesce spada che aveva raggiunto le dimensioni di una sardina. La conversazione di Alice era scemata nel corso della cena, adeguandosi alla stringatezza delle porzioni. Io avevo una stretta alla gola, che mi rendeva difficile mandare giù persino un sorso di acqua. Ormai ero convinto del fallimento della serata. Le ho servito dell’altro vino, nella speranza di renderla più allegra. Il mini-dolce sarebbe sembrato scarso anche ad un lillipuziano, così avevo pensato di accompagnarlo con un cioccolatino. Alice aveva mandato giù entrambi in un boccone, poi aveva addentato un altro grissino e sospirato, guardando il cielo: “Che meraviglia. Sembra una ruota di puddica brindisina…”
Ho avuto una folgorazione, al diavolo la cucina stellata. “Due spaghetti aglio, olio e peperoncino?” le ho chiesto, mimando con le dita il ruotare della forchetta.
Lei ha sorriso, le labbra come falce di luna.