Cinquant’anni fa l’isola di Wight: partecipammo in 600 mila. E fu la storia

Tra il 26 e il 31 agosto 1970, Joan Baez, Joni Mitchell, Jimi Hendrix, Donovan, Jethro Tull, Miles Davis, Mungo Jerry, Arrival, Cactus, Family, Taste, The Doors, The Who, Spirit, The Moody Blues, Chicago, Procol Harum, e tantissimi altri si esibirono sul palcoscenico del terzo Festival dell’Isola di Wight. Il primo si era tenuto nel 1968 e il secondo, che nel 1969 aveva registrato la partecipazione di Bob Dylan con presenze stimate tra 150.000 e 250.000, si era tenuto circa due settimane dopo l’arci-famoso Festival di Woodstock, in New York. L’evento del 1970 però, il terzo di Wight, fu di gran lunga il più grande e destinato a restare per sempre il più famoso di tutti i tempi per l’Europa: si disse fosse stato uno dei più grandi raduni umani al mondo, con presenze stimate in oltre 600.000, superando quindi anche quelle di Woodstock.
Quando quasi dieci anni fa con il mio amico Nicola Poli – il popolarissimo musicista brindisino che fin dai primissimi anni ’60 non ha mai lasciato di coltivare la sua passione e la sua professione musicale a beneficio di quanti lo abbiamo ascoltato e lo continuiamo tuttora ad ascoltare nelle sue esibizioni – organizzammo il gruppo Facebook che intitolammo “Musicisti Brindisini”, fummo intervistati dalla redazione di “SENZACOLONNE” e in data 2 agosto 2011 fu pubblicato un servizio intitolato “Io brindisino catapultato nella mitica isola di Wight”.
Ebbene, quel brindisino ero io e così oggi, in esatta coincidenza con il cinquantesimo anniversario di quel famoso Festival, ho accolto con piacere l’invito del Direttore a riproporre quel racconto nella convinzione che possa destare interesse, o quanto meno curiosità, tra i tanti lettori che quei tempi dei mitici anni ‘60 – se pur non ancora lontanissimi – non hanno vissuto in prima persona e tra quelli che, invece, li hanno vissuti e li ricordano con, probabilmente, un po’ di comprensibile nostalgia. Ecco qui quel mio racconto di 50 anni fa:
«… Brigid era partita in volo per Francoforte, un’ultima tappa prima di rientrare a casa nel Wisconsin al termine della sua lunga estate europea. Durante le ultime tre settimane avevamo attraversato mezza Europa in autostop: da Como, dove c’eravamo fortunosamente e fortunatamente incontrati, a Dublino tappa obbligata del nostro girovagare per la sua natale e “sempreverde” Irlanda, e sui traghetti, prima da Calé a Dover, poi da Swansea a Rossiare e quindi da Dublin fino al porto di Holyjead, da dove finalmente ridiscendemmo fino a Londra, meta finale di quello che era iniziato con la prospettiva di essere un fugace percorso comune e che invece si doveva poi rivelare essere stato un episodio pieno di contenuti così intensi da aver possibilmente segnato le nostre giovani personalità e da aver inciso il tragitto stesso della nostra maturità. Ma questa è tutta un’altra storia, tanto emozionante e bella, quanto incredibilmente venturosa.
Avevo accompagnato Brigid all’aeroporto di Gatwick, sia perché non avevo in assoluto molti altri impegni da adempiere, sia perché era il meno che potessi fare dopo i tanti giorni in cui c’eravamo simbioticamente accompagnati, e sia perché volevo fare un riconoscimento diretto del territorio, visto che dopo qualche giorno, il 1° settembre, sarei dovuto partire io da quell’aeroporto per Milano. Fin dalla mia partenza da Brindisi in autostop un mese prima infatti, quel volo di ritorno aveva costituito il mio unico ed improrogabile impegno. Tutto il resto avevo deciso che dovesse essere un’agenda assolutamente aperta e anzi, meglio, un’agenda aperta ad accogliere ogni eventuale esperienza che potesse contribuire ad appagare l’incontenibile voglia di allargare ed allungare quei miei ancora troppo limitati orizzonti di “quasi” ventenne.
Da Brindisi ero partito in autostop da solo, ma con il chiaro obiettivo di non trascorrere neanche un solo giorno del mio viaggio da solo, e così era stato fin dall’inizio e quindi, quando lo stesso giorno della partenza di Brigid incontrai un ragazzo tedesco che come me faceva l’autostop, cominciammo a chiacchierare e impiegammo non più di dieci minuti a decidere di fare un pezzetto assieme.
Quel ragazzo, Franz, mi aveva infatti da subito impattato positivamente. Avendo riconosciuto che ero italiano dal distintivo che era cucito ed in bella mostra sul mio zaino, dopo solamente un primo saluto e con espressione gioviale, non aveva esitato a chiedermi se avessi visto in televisione la memorabile semifinale del Mondiale di Messico 70 tra la Germania e l’Italia, si si proprio quella partita che solo poco più di un mese prima aveva vinto rocambolescamente l’Italia di Riva Rivera e Mazzola per 4 a 3 ai tempi supplementari.
Era stato lui a parlarne e non io! E lo aveva fatto per raccontarmi della sua desolazione di quella lunghissima notte per la sconfitta della sua Germania e, mantenendo sempre la stessa espressione solare, per congratularsi con me per la vittoria della mia Italia, e per commentarmi con allegra eccitazione ed abbondanza di dettagli tutti gli episodi più esaltanti di quella partita. Che bella lezione da quel giovane coetaneo tedesco!
Ebbene, senza portarla ancora per le lunghe, arrivo al dunque: Franz era diretto a Southampton, perché doveva imbarcarsi per l’Isola di Wigth, perché voleva andare al “festival”, che sarebbe stato un festival cento volte più bello di quello che l’anno prima c’era stato a Woodstok in California, che ci sarebbero stati Jimi Endrix, Jim Morrison, Joan Baez, e … A me quel nome “Wigth” in quel momento non mi aveva detto nulla, ma quello di Woodstok si, e naturalmente quelli di Hendrix, Morrison e Baez, ancor più. Ed allora, … Ma quando finisce sto festival? Il 30 o il 31. Ma il 1° settembre devo essere all’aeroporto! Perfetto, allora posso lasciare l’Isola di Wigth il 30 e quindi, … Franz ci vengo anch’io!
Quella notte dormimmo in sacco a pelo nella sala d’aspetto di una stazione ferroviaria a un po’ di chilometri da Southampton, dove ci aveva scaricato l’ultimo passaggio della giornata. Il giorno dopo ci imbarcammo per l’isola. Il 30 al mattino, prima che il festival finisse, tornai indietro, ed il 1° settembre abbordai il mio volo da Gatwick per Linate: il mio primo volo commerciale dopo quei voli che su aeroplani militari ad elica avevo fatto da bambino di 7 e 8 anni, dall’aeroporto di Brindisi accompagnato da mio padre, militare dell’aereonautica.
Il mio amico Franz si volle fermare fino alla chiusura del festival. Si diceva che alla fine avrebbero anche cantato I Beatles. Non fu così, anche se sembra che alcuni di loro ci siano stati mimetizzati tra il pubblico. Franz dovette aspettare ben tre giorni prima di potersi imbarcare per Southampton e, dei più di cinquecentomila che c’eravamo stati, non fu certo tra gli ultimi a poter lasciare l’isola.
E per riassumere in poche immagini quell’ East Afton Farm di fine agosto 70 sull’isola di Wight: “campi aperti, spazi immensi, tende e sacchi a pelo, bandiere insegne e simboli, capelli lunghi e grande varietà di barbe, nudità esibite, fumo e fumi, notti in bianco e… tanto verde tutt’attorno e per tutti noi”.
Io, poco più che adolescente, italiano di provincia e con solamente un primo anno di università nella nordica metropoli torinese, quella straordinaria stagione di “musica pace e amore” degli anni 60 l’avevo vissuta per alcuni dei suoi aspetti un po’ dalla periferia. E comunque, nel variopinto scenario di tutta quella gioventù incontrata in quel mio primo viaggio per l’Europa, non mi ritrovai quasi mai posizionato troppo indietro e mi ritrovai invece, il più delle volte, abbastanza all’altezza ed in controllo delle tante situazioni.
Con i miei capelli lunghi, con la mia collana della pace, con il mio zaino con dentro il sacco a pelo, con il mio eskimo verde, … Però con anche freschi e ancora vivi i ricordi delle manifestazioni per la pace in Vietnam nel 1967 e poi contro l’invasione della Cecoslovacchia ed a favore della Primavera di Praga nel 1968, delle occupazioni nelle scuole superiori a Brindisi nel 1969, delle assemblee fiume nelle enormi aule affollate e affumicate del Politecnico nel 1970. E finalmente, con la passione per la musica, ascoltata, suonata e ballata.
Specialmente la musica infatti, avevo imparato a conoscerla ed a viverla con passione, coinvolto come anch’io lo ero stato, dalla febbre che anche a Brindisi ci aveva contagiato in tanti: il mio “I Marines” era stato uno di quella dozzina e forse più di gruppi musicali, “complessi musicali” come si chiamavano allora, che sorsero spontanei negli scantinati e sulle terrazze del centro e della periferia brindisina fin dai primi anni 60, facendo eco ai Beatles e Rolling Stones d’oltre Manica ed ai più vicini Equipe 84, Nomadi, Camaleonti, Giganti, …
Con I Marines avevamo esordito, Luigi Sciarra, Enzo Macchi, Sergio Serse ed io con il contrabasso, alla Sciaia a mare dei fratelli Aldo Lilli e Antonio Malcarne nel Carnevale del 1965, mentre per il Carnevale del 1967 eravamo già in trasferta a Torre Canne, con anche il cantante Antonio Volpe che nel frattempo si era integrato al gruppo, nella Taverna del boscaiolo dell’Hotel del Levante. Carnevale in quell’anno cadde a cavallo tra gennaio e febbraio, contemporaneamente a quel triste festival di Sanremo segnato dal suicidio di Luigi Tenco. In quelle serate danzanti l’ospite d’onore che accompagnavamo con i nostri strumenti musicali era Achille Togliani – Sì! cantava ancora – e ricordo che fu lui, molto colpito ed a notte avanzata, a darci la notizia di Tenco.
Poi, fino alla mia partenza per il Politecnico di Torino nell’ottobre 1969, suonammo ancora, … alla Sciaia a mare, al Desirè, all’Estoril, a Torre Canne, a Campomarino, … Però, e peccato! non facemmo in tempo a cantare “L’isola di Wigth”, la splendida cover di “Wight is Wight” del francese Michel Delpech, incisa in 45 giri dai Dik Dik proprio nel 1970. La musica è molto bella e il testo italiano, di Claudio Daiano, un inno a quella nostra gioventù dei mitici anni 60: “…Sai cos’è l’isola di Wight, è per noi l’isola di chi ha negli occhi il blu della gioventù, di chi canta hippy hippy hippyyy…”
In quanto al Festival, definitivamente non si trattò solo di una grande rassegna musicale, e certo di talenti non ne mancarono, né in quantità né in qualità, ma si trattò soprattutto di un evento destinato ad assurgere a vero e proprio manifesto di una generazione, di quel periodo in cui i sogni di libertà viaggiavano anche lungo i binari della musica. Gli anni 60, vissuti all’insegna della terna “music peace and love”, non avevano potuto incontrare un miglior palcoscenico per il proprio atto conclusivo. Sintomatici di quella fine dovevano infatti rivelarsi le tragiche morti, di Jimi Hendrix da lì a pochi giorni, di Joplin Janis nell’ottobre dello stesso 70, e di Jim Morrison solamente un anno dopo.»