Delizia di un pasticciotto: quel dono che si ma motore

Capita a tutti di avere una giornata no, nella quale si inanellano episodi negativi che ti deprimono il piacere di pensare positivo.
Poi accade l’episodio inatteso, che ti sorprende e ti obbliga a pensare che hai sbagliato a prendertela, per un piccolo incidente, per l’appuntamento saltato, per l’abbraccio mancato.
Dalla centrale operativa dell’istituto di vigilanza, arriva l’allarme che presso il mio piccolo eremo qualcosa stà succedendo. Dopo circa trenta minuti, la pattuglia mi contatta di nuovo, per chiedere di andare a verificare l’interno dell’immobile, anche se l’esterno non mostra segni di irregolarità.
Dopo mezz’ora sono lì accompagnato da parte della mia famiglia. La verifica è facile perché breve, è un piccolo eremo, appunto: tutto regolare. Una telefonata con la sala operativa per scambiarsi il doveroso grazie e la affidabile solerzia e per lo scampato pericolo di furto. Il paesaggio invernale, gli alberi spogli, le piante irrigidite e l’erba selvatica, invece, rigogliosa, mi ritornano una immagine di attesa, perché tra poche settimane bisognerà mettere mano alla preparazione primaverile, alla rinascita della colorata stagione.
Risalgo in auto, siedo dietro, non guido, ma sono eccezionalmente e costantemente guidato dal gineceo che mi contorna d’amore, affetto e di gratificazione.
La donna più adulta è alla guida e lancia un pensiero lungo: cosa vi và di fare? Non mi faccio scappare l’occasione per chiedere di andare in un certo bar pasticceria, dove la più giovane è testimone, preparano delle krapfen eccezionali.
Così sia, alla faccia della mia glicemia, (con la speranza che questa nota non la legga la mia diabetologa).
Scendo dall’auto che è il tramonto di un giorno freddo che pare non essere sorto mai. La voce femminile che mi accompagna, forse con l’intento di frenare altre mie freneseie gustative, chiede, ma le viene risposto che purtroppo le krapfen sono terminate. Una forza irresistibile, mi spinge ad oltrepassare la soglia del bar-pasticceria e con accento dialettale dichiaro l’amore per quella bomba di sublimi emozioni: “piccatu, propia osci, ca tinia la voglia!”.
Non l’avessi mai detto, da dietro il bancone, un ragazzone corpulento e bonario, dichiara il suo dispiacere, ma con garbo insiste e vuole, se no, si offende, farci un regalo, sì proprio un regalo: tre pasticciotti.
Chiedo di pagare, ma lui rilancia, vi offro anche il caffè e a quel punto il mio imbarazzo e quello di chi mi accompagna diventa timore reverenziale dinanzi a chi dona il sacrificio del proprio lavoro, col solo di fine di venire incontro ad un mio desiderio.
Ringrazio più e più volte e quell’incontro casuale, che nasceva nel mancato rapporto commerciale, ha fatto esplodere un valore assai più grande, la solidale necessità di riconoscersi parte di una medesima difficoltà, persone umanamente colpiti dal medesimo bisogno di riconoscersi socialmente affini, umanamente fratelli.
Come ogni brindisino sa, a far da camera di decantazione per ogni emozione, per ogni suggestione, per ogni delusione, si va tutti alla diga, che argina ogni deriva emotiva e ci sostiene nel nostro essere brindisini, lo sguardo bifronte alle due realtà, il mare mosso e inquietante e la cheta acqua del porto che il bastione garantisce come fosse madre nutrice e accogliente.
Prima di mangiarlo e goderne fino all’ultima briciola, mostro alla mia fotografa l’arca di delizie per immortalarla in tutta la sua potenza evocativa.
La capiente stiva ricolma di crema e le paratie di frolla che cedono al morso e al palato inondanti dosi di suprema dolcezza, mi porta, dopo aver ringraziato il cielo per aver incontrato, tante delizie, in un pasticciotto solo, che l’incontro con gigante buono, per giunta Giuseppe di nome, affidabile nelle sue affermazioni, generoso nella sua gioia di condividere l’opera del suo lavoro, mi porta a pensare lontano, mica tanto poi.
Non ci vuole molto a cambiare la situazione che ci vede sopprimere le nostre esigenze di libertà, che ci vede genuflessi ai decreti e alle mille regole che ci hanno fatto traballare certezze, per decenni ritenute incrollabili.
Certo, non è compito di un pasticciotto, ma di chi lo fa, come tantissimi altri, che nel nostro Grande Paese, si cimentano col lavoro alla produzione di beni e servizi alla comunità.
Giuseppe mi ha dato una lezione di economia circolare, quella virtuosa, quella che alimenta e diviene essa stessa motore per una rinascita socio-economica.
A me che non sono nessuno, mi ci sono voluti i metri che separano il quartiere Santa Chiara dalla Sciaia, per capire la portata rivoluzionaria e a costo bassissimo, per recuperare le sorti del Paese.
Giuseppe ha donato il frutto del suo lavoro, aprendo una linea di credito, giocandosi il valore più alto della sua operosità, l’interesse che sta oltre il guadagno e che si chiama servizio alla comunità.
Recita l’articolo 1 della nostra Costituzione, che la nostra Repubblica si fonda sul lavoro, il suo fine non è il mero guadagno economico, ma il perseguimento del bene di tutta la famiglia sociale italiana.
Io tornerò da Giuseppe, per riconfermargli la mia fiducia, ringraziandolo ancora una volta comprando da lui, il “dolce” prodotto del suo lavoro.