Do ut des – Racconti al balcone

Le urla lo svegliarono. Di nuovo. La stessa storia ogni pomeriggio. Lui tornava a casa in ritardo e lei lo accoglieva scaricandogli addosso tutta la sua frustrazione e i suoi sospetti. Si alzò e sistemò il copridivano. Enza stava per rientrare. Non avrebbe gradito di trovare la casa in disordine. Da quando Marco era disoccupato i ruoli si erano invertiti. Ora toccava a lui preoccuparsi di sfaccendare e preparare la cena. A dire il vero, non si era trattato di un vero scambio. Enza non si era mai interessata di nulla, aveva avuto sempre un paio di cameriere a disposizione. Poteva permetterselo. Marco era solo l’ultimo dei galoppini, nell’azienda. Con uno di quei miserabili contratti precari destinati a sciogliersi come un ghiacciolo ad agosto. Tutti si erano stupiti di come Enza, l’algida, l’imperturbabile, la sterminatrice, si fosse innamorata di quella nullità tanto da sposarselo. Persino Marco era rimasto stupito. Poi aveva capito. Aveva bisogno di uno schiavo, di un cagnolino fedele che scodinzolasse felice ogni volta che allungava una mano per fargli una carezza. “Non è necessario cercare un altro lavoro” gli aveva detto, “La villa è grande. Ci penserai tu”. Gli aveva persino concesso una carta di credito. Prepagata. Con una cifra fissa e mensile. “Per le tue piccole spese” aveva detto. La lite nella casa accanto si era affievolita. Marco sapeva che il suo vicino viveva in una situazione simile. Moglie ricca e vita da stronzo. Cominciò a preparare la cena. Avrebbe potuto fare come quel film, con quei due che si incontrano per caso su un treno e decidono di scambiarsi le vittime, così da non essere scoperti. Non ne ricordava il titolo. Nemmeno la fine. Però poteva essere una buona idea. Il vicino avrebbe fatto fuori Enza e Marco avrebbe ricambiato il favore. E poi entrambi si sarebbero goduti i frutti della transazione. Sentì la porta aprirsi. L’idea sfuggì dalla mente. Ritornò prepotente mentre portava fuori il bidoncino dei rifiuti. Il vicino stava fumando una sigaretta, accanto al cancello. Si scambiarono un’occhiata. Marco intravide una possibilità.
Il piano era semplice. Avrebbe cominciato Marco. Sarebbe entrato dalla porta sul retro, quella sul giardino. Era sempre aperta. Alle tre del pomeriggio lei sarebbe stata intenta a seguire la sua telenovela preferita. L’avrebbe assalita alle spalle, con un pezzo di corda recuperato qualche giorno prima da un cantiere dismesso. Poi sarebbe tornato indietro. Veloce e pulito. Il marito avrebbe scoperto il corpo al ritorno dal lavoro, dove più persone avrebbero confermato la sua presenza all’ora dell’omicidio. Poi sarebbe toccato a Enza. Una sera a settimana Marco aveva il permesso di andare in palestra. Il vicino avrebbe usato lo stesso pezzo di corda. Per depistare e far pensare all’attacco seriale di uno squilibrato. Poteva funzionare. Avrebbe funzionato. “Mi sembri nervoso, stamattina” aveva chiesto Enza. “Ho visto qualcuno spiare nel giardino dei vicini” rispose Marco. Gli era parsa una buona idea, buttare lì quel sospetto. Lei rise: “Troppi telefilm, si vede che non fai nulla tutto il giorno”, poi uscì. Marco contò i giorni che lo separavano dalla liberazione. Trascorse la mattina a rimettere a posto gli armadi. Non riusciva a stare fermo. All’ora stabilita sbirciò fuori dalla finestra. Nessuno. Uscì dal retro e superò con un salto la bassa siepe che separava la villa da quella accanto. Riusciva a vedere lo schermo del televisore all’interno della casa. La porta era aperta, gli bastò spingerla. Tornato in cucina, si versò un bicchiere di whisky. Era fatta. Più facile di quanto avesse creduto. Non si era accorta di niente. Solo qualche gorgoglio soffocato e i piedi che si dibattevano. Si augurò che anche Enza soffrisse poco. In fondo voleva solo liberarsene il più in fretta possibile. Nascose i guanti e la corda in fondo alla legnaia. Per eccesso di prudenza infilò in lavatrice la felpa con il cappuccio e il pantalone della tuta che aveva indossato. Riconobbe il rumore dell’auto del vicino e contò i secondi prima di sentire il grido di aiuto venire dalla casa. Corse in strada. In lontananza si sentiva già una sirena. Rimase fra i curiosi finché il corpo non fu portato via, poi rientrò vedendo arrivare Enza. Erano seduti a cena quando squillo il campanello. I lampeggianti in strada continuavano a lanciare frecce di luce. Si preparò a rispondere alle domande. “Mi era sembrato di vedere qualcuno, non so, non saprei, li conoscevo poco”. Aprì la porta, due uomini lo afferrarono bloccandogli le braccia.
“Questo sei chiaramente tu che entri nella casa. Con un pezzo di corda in mano. L’abbiamo trovata nella legnaia. Resta da sapere perché” disse il Commissario. Il filmato era nitido. Il vicino non gli aveva parlato dell’esistenza di una telecamera di controllo. Ben nascosta. Invisibile. Marco non sapeva cosa dire. Non poteva parlare del piano. Chi gli avrebbe creduto? Non si erano mai frequentati e due chiacchiere fuori dal cancello non costituivano certo una prova di complotto. Voleva un avvocato. Chiese di vedere sua moglie. “Non vuole parlare con te” disse il Commissario, “ha già dichiarato di volere il divorzio. Sei solo, Marco, non hai nessuno dalla tua parte”. Lo prepararono per condurlo in carcere. Uscì dalla stanza. Enza era in piedi, accanto alla macchina del caffè. Di fronte, seduto su un divanetto, con la fronte fra le mani, il vicino. Uno sguardo rapido, quasi per caso. Marco capì. Lo scambio era riuscito, ma non era lui ad averne beneficiato. Nel “Do ut des” avevano vinto loro due.