
Disonorevole. Mia madre considerava così la mia maestria nel modellare la creta. Eppure, cosa c’è di più femminile che dare la vita con le proprie mani? Non siamo forse predisposte a questo e a ciò destinate, noi donne? Vicine a Dio nell’atto della creazione. Le dita si muovevano veloci, in sintonia con i pensieri. I corpi esplodevano dalla materia inerte, si libravano nell’aria, conquistavano il loro spazio nel mondo. L’arte si è impossessata di me appena ho aperto gli occhi e ho visto forme dove ancora non c’erano. Lasciavo le bambole alle altre bambine. Un dono, voi dite? Non ai miei tempi. Come potevo osare io, piccola femminuccia, competere con la forza virile del marmo, del bronzo? Perché non mi bastava dipingere timidi acquarelli, paesaggi fioriti, volti delicati? Mio padre capiva. Mi lasciava libera di sperimentare, mi spinse a studiare. Mi illuse. Anche mio fratello, prima di convincersi che Dio è intransigente, poco propenso a lasciare spazio alla fantasia. Ma, forse, lo credevano solo un passatempo, in attesa di vedermi fare il mio dovere di sposa. Solo mia madre mi osteggiava. A volte penso che lei sia stata l’unica ad aver scrutato veramente in fondo alla mia anima, a sapere ancora prima che accadesse che non sarei stata mai “normale”. E invece di aiutarmi a sciogliere i vincoli che la mia brama non sopportava, ha trascorso la vita a controllarmi, a schiacciarmi. Le donne sanno essere le peggiori nemiche del loro stesso sesso. Gelose del proprio ruolo dimesso, secondario. Custodi passive di valori desueti, sono incapaci di concepire altro. Innamorarmi del mio maestro era inevitabile. Non potevamo non riconoscerci, con la stessa febbre che bruciava le nostre menti. Fu un attimo: un sussurro, parole di lode, una carezza mentre guidava la mia mano. Le sentivo ancora, nel luogo di disperazione dove sono stata rinchiusa.
La passione ci univa. La sintonia dei corpi non era altro che logica conclusione dell’attrazione delle nostre anime. Accanto a lui, il grande Auguste Rodin, io ero solo umile allieva, ma ciò mi bastava. Vivevo di luce riflessa, perché la mia era troppo accecante per essere accettata. Mi bastava la sua silenziosa approvazione e un piccolo spazio per le mie creazioni. A volte lasciava che il mio tocco permeasse le sue sculture, un segno di benevolenza, una concessione. La protetta, l’allieva, l’amante. Non importava la definizione che la gente mi dava. La bellezza delle mie opere era indiscussa. Il mio amore anche. Possessivo e smanioso, erotico e sensuale, furioso e delicato. Avvinghiante come ne La Valse, due corpi uniti in una danza, che emergono dal tumulto del bronzo.
Ma il suo cuore era diviso: un’altra donna, più mesta, più dolce, più “comoda” finì per trattenerlo. Fedeltà, diceva, riconoscenza. Io credo fosse paura, forse invidia. Di quel tratto dolce, affettuoso, che solo una donna poteva imprimere nella pietra, sconvolgendo la presunzione maschile. Gli avvoltoi calarono su di me, senza più alcuna ala protettrice tutto il mio lavoro perse improvvisamente valore. I dubbi si insinuarono, ero solo il frutto della magnanimità del maestro, nessuna originalità. Nulla era più mio. Sola, abbandonata, ho lottato per esistere. Fui tradita dal mio stesso sangue.
Morto mio padre, mia madre mi accusò di delirio, di immoralità, di pazzia e mi fece rinchiudere. Un manicomio è un luogo triste, ingiusto. Le mie compagne di sventura erano come me, la loro sola colpa era di non essere plasmate come richiesto dalla società. Che bella parola: plasmare. Dare forma alla materia inerte con le proprie mani. Se solo avessero capito. Anche Dio ha plasmato l’uomo a sua immagine. Ma l’ha lasciato libero di vivere, di sbagliare, di agire. Ecco, io avrei voluto solo fare ciò per cui siamo stati creati. Il giudizio degli uomini è impietoso. Sono rimasta rinchiusa per trent’anni. Tanto ho pagato per aver osato volare in cieli non destinati a me. Fino alla fine, ho scritto chiedendo comprensione o almeno pietà, con le parole dei medici a confermare la mia docilità. Perché questo contava.
Non la ragione, solo l’obbedienza e la rassegnazione. Volevo finire i miei giorni a casa o almeno in un luogo da considerare tale, diverso da anonime mura grigie pervase di dolore e solitudine. La mia famiglia ha preferito dimenticarmi. Cancellarmi, come se non fossi mai esistita, lasciando che l’oblio del tempo mi risucchiasse sbriciolandomi come polvere. La stessa che restava sul pavimento mentre la pietra prendeva vita. Ho punito il mondo negandogli la mia arte. Quelle stanze buie, risuonanti di urla disperate, non hanno mai visto la maestria delle mie dita, il pulsare del mio cuore. Sono morta sola, lasciando che la vita defluisse dalle ferite della mia anima. Non ho una tomba, nessuna lapide a ricordare che sono esistita, le mie membra confuse con altri corpi sconosciuti.
Ma il tempo, che avrebbe dovuto seppellirmi per sempre, sa avere compassione, spargendo semi che fioriscono tardivi. Ho dovuto aspettare generazioni, prima che un Claudel si ricordasse di me e con la stessa passione che mi ha divorato, si battesse per restituirmi uno spazio nel mondo. Non più allieva, non più ombra, oggi percorro silenziosa ed evanescente le stanze del Museo che prende il mio nome. Percorro sale luminose, accarezzo forme a cui ho dato vita, avverto lo stupore negli occhi di chi osserva. Ricordo. La frenesia dell’ispirazione, l’emozione di scoprire un volto in un blocco scomposto, la nascita della forma. E, finalmente, mi sento libera di esistere.