Donne ribelli: Mary Shelley – Racconti al balcone

Se vivessi oggi, sarei spesso ospite in tv. Non in trasmissioni culturali per la mia opera da scrittrice, ma in quei talk-show tanto di moda, dove le disgrazie della gente fanno più audience delle loro conquiste.
Non ho avuto una vita felice. Mia madre non è sopravvissuta alla mia nascita e, di lei, mi è rimasta solo la libertà di pensiero alla quale mio padre mi aveva educato, in onore della filosofa femminista che mi aveva messa al mondo. Forse, essersi risposato troppo presto l’aveva reso colpevole di poco ricordo e ha voluto rimediare dandomi accesso a quell’istruzione autonoma che alle donne non era concessa spesso, all’inizio dell’Ottocento. Come avrebbe potuto fare altrimenti, con la nostra casa frequentata da letterati illustri come Lord Byron, Coleridge e quel Percy Bysshe Shelley del quale mi innamorai perdutamente quando avevo solo diciassette anni. Fuggimmo insieme, nonostante fosse già sposato. Accadde, allora, una cosa che non mi sarei aspettata: mio padre non approvò. Proprio lui, che considerava il matrimonio una mera convenzione sociale e aveva sempre appoggiato il disprezzo di Percy per gli antiquati principi della sua aristocratica famiglia, si dichiarò deluso da noi, che altro non volevamo che la nostra libera felicità. C’è un proverbio che dice che chi predica bene, razzola male. Mio padre ricordò all’improvviso che la mia “immacolata reputazione” andava preservata. Evidentemente, c’era un limite invalicabile che le donne non potevano superare, anche nelle visioni più progressiste. L’eguaglianza restava solo una teoria, un argomento da intellettuali falsamente anarchici. Impossibile da realizzare. Sarà ancora così? Quali traguardi avete raggiunto nel lontano ventunesimo secolo, mie sorelle di sesso? Siete libere di scegliere l’amore o l’emancipazione non riguarda i sentimenti? Io e Percy fuggimmo, vagando per l’Europa. Ci sposammo due anni dopo, a caro prezzo. Sembrava che il destino o, forse, Dio, si accanisse contro di noi, punendoci per aver osato spezzare un sacro legame. I nostri figli, tanto desiderati e amati, non sopravvissero che poco tempo e solo l’ultimo divenne il mio sostegno per la vita. Credo, però, che questa concessione mi fu fatta solo in cambio del mio Percy, che scomparve fra le onde di fronte alla costa ligure. L’Italia tanto amata, che ci aveva accolto nel nostro peregrinare, pretese un contributo di sangue. Il mio tempo restante l’ho trascorso nel dolore, rieditando le opere del mio compagno e cercando conforto nella scrittura. Perché quella era la mia passione e il mio sollievo. Il mio nome è legato a una creatura nata dalla noia. Avevo diciannove anni, l’amore e una visione ancora rosea del mio domani, anche se le sventure avevano cominciato a segnarmi. Era un’estate piovosa e trascorrevo il tempo insieme ad amici fidati, conversando di scienza, futuro e letteratura. Ridevamo leggendo storie di fantasmi e racconti gotici, così decidemmo di fare una gara, per chi avesse scritto la più avvincente storia di terrore. Frankenstein nacque così, dall’idea intrigante di unire l’intuizione dell’uomo alla scintilla divina del Creatore. In seguito, l’hanno definito il primo romanzo di fantascienza. Ma, allora, era solo agghiacciante fantasia e, oggi, potreste considerarlo realtà. Non è forse vero che è possibile ridare la vita grazie al trapianto di frammenti morti? Ciò che allora era orribile oggi è considerato normale. Il mio mostro era gentile, affettuoso, capace di commuoversi di fronte alle cose belle. Innocente, così come sono i bambini appena nati. Fu l’odio degli uomini a trasformarlo. La paura del diverso, dell’incomprensibile armò la mano dei benpensanti. Così come la mia scelta anticonvenzionale di seguire il cuore aveva ripescato repulsioni ataviche in mio padre. Io reagii con dolore e sconforto, il mio Frankenstein con odio cieco e distruzione, trascinando con sé chi l’aveva costretto a scatenare la sua furia. Solo un romanzo di paura? Uno spauracchio per fifoni? Avrei voluto suscitare riflessioni, aprire le menti a nuove considerazioni. E voi, pronipoti di un tempo futuro, avete imparato a non temere chi non conoscete? O ancora vi ostinate a restare confinati nella ristrettezza dei vostri preconcetti? Lo pubblicai anonimo. I lettori entusiasti scoprirono solo dopo anni che era nato dalla mia immaginazione. Troppo tardi per ripudiarlo come l’opera scandalosa di una donna. La mia penna era infaticabile, sola fonte di sostentamento. Passioni storiche, racconti di viaggi, novelle per riviste femminili, vicende appassionanti. Eppure, poco di me si conobbe, finché fui viva. Molti dei miei romanzi sono stati riscoperti dopo, quando ormai nulla poteva giungermi, nel luogo etereo in cui sono. Quella che oggi definite fantascienza continuò ad affascinarmi. In un futuro ancora inesistente potevo far fluire le mie angosce e far rivivere chi avevo perduto. Credo, però, che ciò che descrissi ne “L’ultimo uomo” non vi piacerebbe. Ha il sapore di una predizione, un monito. Parla di amore e morte, di guerre e fughe, di promesse non mantenute e rancori mai sopiti. Di un amaro destino contro il quale combattere è inutile. E di una pestilenza che perseguita l’umanità fino ad annientarla. Nell’anno 2100.