Esercizio del potere e libertà di stampa

Denis Diderot è morto, 235 anni fa. Per quanto sia stato un ateo convito, ripeteva infatti: “È molto importante non confondere la cicuta col prezzemolo, ma credere o non credere in Dio non lo è per nulla”, qualunque Dio lo abbia oggi in gloria, è certo che alla storia, lui resta come pietra miliare per chi vuole dare ordine alle regole ed ai valori della comunicazione.
Diderot, fu promotore, nonchè direttore editoriale ed editore dell’Encyclopédie, ovvero il primo dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri.
Diderot era anche notevole filosofo. Oltre al colossale lavoro enciclopedico e alle pubblicazioni anonime per aggirare la censura, che lo avrebbe portato persino alla condanna a morte, Diderot scrisse numerose opere filosofiche e teatrali, romanzi, articoli e saggi, occupandosi anche di politica e società. In questo suo percorso culturale, giunse ben presto alla convinzione di un principio fondamentale: “la politica non ha per fine di consolidare un potere e di fondare un’obbedienza, ma di permettere, se non di assicurare, la felicità dei popoli”.
Le sue considerazioni divennero canovaccio per i rivoluzionari di ieri e di oggi o più semplicemente di quanti si sono opposti o hanno resistito alla deriva del potere di cercare sempre e soltanto il consolidamento del proprio mantenimento.
“In politica – scrisse – i sistemi sono più pericolosi che in filosofia. Quando l’immaginazione di un filosofo prende la direzione sbagliata, i suoi errori danneggiano soltanto lui; quando è l’immaginazione di un politico a deviare, i suoi errori sono una sventura per molti uomini”.
Letta così, la faccenda, non pare proprio difficile comprendere, quanto male stiamo messi, se in pieno terzo millennio ed oltre due secoli dalla sua morte, siamo qui a ragionare del rapporto malato tra il potere, chi lo esercita e chi l’attività di quel potere è chiamato a raccontare. E soprattutto chi ha confuso la cicuta col prezzemolo?
ln varie sentenze della Corte Costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che ha definito il giornalista: “il cane da guardia della democrazia”. Non è un caso, quindi, che sulla professione giornalistica si scarichino tensioni, polemiche, contestazioni. Ma anche violenze.
non sempre nell’opinione pubblica è chiara la consapevolezza che ogni volta che viene tappata la bocca a un giornalista con le pressioni, i ricatti, le intimidazioni, o la violenza si perde un pezzo di democrazia.
Una professione delicatissima, dunque, quella del giornalista, ma anche molto difficile e il cui svolgimento è reso sempre più complicato dalla crescente complessità del mondo contemporaneo, ma anche dalla consapevolezza acquisita dai centri di potere dell’importanza di riuscire a orientare e, meglio ancora, a condizionare, l’informazione. Una campagna elettorale, una manovra finanziaria, una guerra, un conflitto diplomatico hanno bisogno del sostegno, consapevole o meno, dell’informazione che quindi è sempre più oggetto di condizionamenti, manipolazioni, inganni. Queste azioni si dispiegano talvolta in maniera aggressiva e sfacciata e altre volte in modo insinuante e subdolo. Non sono rare, pertanto, espressioni del tipo: “non hanno certamente giovato all’iter procedimentale le continue esternazioni sulla stampa di critiche e dubbi sulla idoneità del sito e sulla scarsa qualità del progetto”.
Prende sempre più piede la prassi per cui il giornalista, più che cane da guardia della democrazia, sia un cane da riporto del potere, atteso che, nel rispetto dell’art. 21 della Costituzione sul diritto di espressione, gli unici a vedere ridotto il proprio ruolo previsto per altro dall’art 31 della medesima Carta, sono proprio i giornalisti che un minimo di consapevolezza professionale, l’hanno pure acquisita negli anni di studio e di praticantato, prima di accedere alla professione, avendo superato addirittura un esame di Stato.
la professione giornalistica è sempre e comunque un’attività individuale che si inserisce in un contesto più ampio (la redazione, l’insieme dei mezzi di informazione, l’opinione pubblica) che rappresenta un arricchimento e non limitazione e che inserisce il giornalista in una dialettica sociale, politica, culturale, professionale che quotidianamente lo porta a ridefinire i propri parametri di lettura degli avvenimenti. Nel giornalismo conta il talento, l’intuito, la rapidità di comprensione e di esecuzione, il saper scrivere, ma si tratta comunque di una professione che si sviluppa in un contesto pubblico, produttivo ed economico.
L’affidabilità di un giornalista è un processo lungo e faticoso, che si alimenta di coerenza e di servizio al proprio editore di riferimento, che è la platea dei lettori. In questo tempo malato di egocentrismi, affetto da insaziabile ansia di consenso, i politici, tutti, evitino di volere domande alle sole risposte che conoscono e soprattutto, amministrino, se lo sanno fare, nel solco, certo e sicuro, di valori che sono nati dal sacrificio e dalla morte violenta di troppi nostri padri, mai divenuti genitori.