Guaceto, tra natura e storia: dall’acqua dolce degli arabi all’oasi protetta del WWF

Guaceto è il noto nome della bellissima caletta, abbastanza profonda e ben protetta da settentrione, che s’incontra sul litorale a circa una quindicina di chilometri a nord di Brindisi, attualmente per lo più identificata con la ben conservata – restaurata nel 2008 – Torre Guaceto, la seicentesca [forse ne esisteva una anche prima] torre di avvistamento vicereale, edificata circa il 1563, che sorge su un basso promontorio sovrastante un’area paludosa nei pressi della foce di un piccolo fiume di acqua sorgiva.
E proprio da quest’ultima particolarità deriva il nome Guaceto, infatti ‘gaw sit’ in lingua araba significa ‘acqua dolce’, un toponimo quindi testimone dell’antica frequentazione saracena di questi lidi e già riportato dal geografo arabo Edrisi nella sua famosa mappa confezionata nel 1154 per il re di Sicilia Ruggero II: unico toponimo presente nella mappa sulla costa tra Brindisi e Bari. Nella relazione della visita pastorale dell’arcivescovo Bovio dell’anno 1565, Guaceto si indicò anche con il nome di Saracinopoli.
Quella di Guaceto è la più grande delle tante torri che ci sono in Terra d’Otranto: di struttura troncopiramidale con pianta quadrata di 16 metri di lato, all’interno ha le pareti verticali delimitando un’area di 9 metri e mezzo di lato. È munita di archibugiere e di larghe caditoie: tre sul prospetto mare, due sulle pareti laterali ed una sul prospetto interno. Comunica visivamente con le vicine torri costiere Santa Sabina a nordovest e Testa a sudest.
La storia della baia Guaceto con il suo piccolo ma strategico porto è, però, ben più antica di quella dell’oggi rinomata torre. Numerosi reperti archeologici ritrovati, infatti, attestano che l’area fu abitata sin dall’età del Bronzo e successivamente la rada fu di certo utilizzata anche dai Messapi e particolarmente dai Romani, come testimoniato dal ritrovamento di numerose loro marre di ancore in piombo. In età Tardoantica, tra V e VI secolo, la rada deve aver costituito un approdo ancora importante, come lo indicano il rinvenimento di un relitto dell’epoca nelle sue acque e la presenza di resti coevi di una torre-faro realizzata in grossi blocchi squadrati sul secondo – quello più grande – dei tre isolotti antistanti.
È però dall’alto Medioevo che giungono i primi elementi storici certi e documentati circa le vicissitudini della strategica caletta brindisina. Vicissitudini inizialmente legate, appunto, alla presenza araba che sulle coste adriatiche cominciò a far sentire con insistenza la sua temutissima azione a partire dal IX secolo, specificamente a partire da quando nell’827 i mussulmani Aghlabidi provenienti dal Nordafrica, iniziarono l’occupazione stabile della Sicilia che, ben presto e per duecento anni, trasformarono in loro sicura e solida base d’azione per sistematicamente scorribandare su tutto il Meridione italiano.
Una volta sbarcati e ben insediati nella Sicilia, infatti, fu naturale che gli Arabi guardassero all’Italia peninsulare come ad una meta di conquiste e, soprattutto, di scorrerie. Così, per ben due secoli, il IX e il X, l’intero Mezzogiorno visse la presenza musulmana come un endemico flagello di guerra e di rapina, continuamente combattuto – da Bizantini, Veneziani, Longobardi, Franchi – e mai debellato, anche perché gli Arabi furono abili a inserirsi nelle vicende della tribolata storia altomedievale del Meridione italiano, proprio come avvenne in quella loro prima incursione dell’836, quando fu lo stesso duca longobardo di Napoli, Andrea, che li chiamò in suo soccorso contro Sicardo, il principe – anche lui longobardo – di Benevento, che lo aveva assediato.
Solo poco più di un anno dopo, nell’838, gli Arabi di Sicilia comparvero nelle acque dell’Adriatico e s’impadronirono indisturbati di Brindisi, che era rimasta semidistrutta e quasi del tutto spopolata da quando, circa il 680, i Longobardi l’avevano conquistata sottraendola ai Bizantini. Il duca Sicardo, appena saputolo, accorse da Benevento con numerose forze a cavallo per respingerli, ma alle porte della città cadde in un tranello e solo fortunosamente riuscì a salvarsi. Poi, i Saraceni, avuta notizia che Sicardo stava facendo grandi preparativi per la rivincita, non esitarono a dar fuoco alla città e a ritirarsi, non senza averla prima depredata, stabilendosi nella vicina strategica e ben protetta baia di Guaceto, ove costruirono un grande campo trincerato – denominato “ribat” del quale fino a tutto il XVI secolo si scorgevano ancora le rovine – che servì loro come base da cui dedicarsi indisturbati a organizzare scorrerie per mare e per terra durante una trentina d’anni, fino alla caduta dell’emirato di Bari nell’871 ed alla successiva stabile riconquista bizantina di Brindisi, circa l’880.
Poi, con la cacciata definitiva degli Arabi dalla Sicilia – nel 1038: duecento anni dopo la loro prima incursione su Brindisi – e con la fondazione del regno, dei Normanni prima e degli Svevi degli Angioini e degli Aragonesi dopo, le incursioni dei Saraceni finirono di costituire una minaccia impellente per le coste brindisine e il piccolo porto Guaceto visse di una regolare, per lo più commerciale, pur limitata attività ausiliare di quella brindisina.
Finché, la caduta in mani turche di Costantinopoli nel 1453, segnò una svolta definitiva nell’equilibrio delle relazioni di forza in tutto il Mediterraneo orientale, nonché nell’Adriatico meridionale, presto crudamente materializzate con l’invasione di Otranto nel 1480 da parte degli Ottomani di Maometto II.
Sul finire del 1483, le relazioni tra il regno di Napoli dell’aragonese Ferdinando I – il re Ferrante – e Venezia si erano tese per essere stata questa – secondo Ferrante – partigiana, quanto meno per omissione, degli Ottomani nella traumatica vicenda appena conclusasi dell’attacco e presa di Otranto. E in tale contesa i Veneziani, sollecitati dal papa Sisto IV che era stato attaccato da Ferrante, tentarono di prendere Brindisi inviando da Corfù una flotta forte di 56 vele trasportando truppe d’assalto al comando di Giacomo Marcello.
Il generale veneziano pensò non attaccare la città dal mare, perché ben difesa, e sbarcò proprio sulla strategica spiaggia di Guaceto – che a quel tempo fungeva da porto esclusivo di Mesagne e i che Veneziani ben conoscevano per averla utilizzato già in precedenti occasioni per scorribandare nell’entroterra – da dove iniziò la marcia su Brindisi. Le truppe invasore saccheggiarono Carovigno e San Vito dei Normanni – allora degli Schiavoni – e quindi si diressero “tronfi e baldanzosi” alla volta di Brindisi con il proposito di occuparla.
In città però, Pompeo Azzolino, un nobile condottiero brindisino che già si era distinto nelle azioni militari per la liberazione di Otranto, appena informato degli eventi organizzò in armi un gruppo di cittadini volontari e uscì all’incontro di Marcello, affrontandolo e sconfiggendone le truppe sulla strada per Brindisi. Lo fece retrocedere costringendo gli invasori a una precipitosa fuga – in cui lo stesso Marcello rischiò di essere ucciso – incalzati fino al porto di Guaceto nelle cui acque era alla fonda l’armata veneta che, dopo aver cannoneggiato gli inseguitori brindisini e aver accolto i malconci fuggitivi, sciolse le ancore e prese il largo alla volta di Gallipoli.
Iniziò quindi, una nuova lunga stagione di scorrerie e saccheggi da parte dei mussulmani arabi, turchi, saraceni e barbareschi, come indistintamente li furono identificando i terrorizzati abitanti delle nostre coste. Scorrerie e saccheggi che perdurarono nei secoli XVI e XVII e continuarono, pur diradandosi, finanche nel XVIII. E così gli Spagnoli, nuovi signori del regno di Napoli, a partire dal 1560 edificarono lungo il litorale brindisino quattro nuove torri – Testa, Penna, Mattarelle e Guaceto – che affiancarono la preesistente angioina Torre Cavallo.
I pirati musulmani, in effetti, intensificarono le proprie razzie, tese soprattutto ad approvvigionare il fiorente mercato degli schiavi. Due corsari musulmani – Khair Al Din e Dorghut – rievocano le incursioni più devastanti e distruttive: Khair Al Din, detto Barbarossa, sceicco d’Algeri e ammiraglio comandante della flotta turca, dopo la vittoria ottenuta a Pervese nel 1538 sulla flotta imperiale di Carlo V, ebbe mano libera in tutto il Mediterraneo, devastando le coste del vicereame di Napoli. E quando nel 1546 morì, gli succedette, per fama e per efferatezza, l’audacissimo Dorghut che fu governatore di Tripoli, il corsaro musulmano più scaltro e potente fino allora conosciuto, vero terrore dei naviganti e delle popolazioni costiere occidentali.
«…A dì 5 agosto 1673 giorno di sabato su la mezza notte fu integralmente saccheggiato dalli turchi Torchiarolo, con morte di quattro persone di detto casale e ottantaquattro ne furono fatti schiavi. A dì 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece presenza presso la torre delle Teste e fece dodici schiavi dalle masserie vicine, e a Brindisi – a causa del grande spavento per quell’assalto così prossimo alla città – si fece costruire la muraglia, ovvero cortina, che sta attaccata tra il torrione dell’Inferno con quella della porta di Mesagne. Nel luglio 1681 Specchiolla, presso San Vito dei Normanni, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata dai Turchi…». E per molte di quelle scorrerie, la baia di Guaceto costituì, naturalmente, l’ideale punto di sbarco.
Nel Settecento, la rada di Guaceto divenne proprietà della famiglia Dentice di Frasso che nel 1940 ne fece una riserva di caccia e da allora l’area non fu più interessata da insediamenti umani. Durante il secondo conflitto mondiale fu impiegata per fini militari. Nel 1981 la Convenzione di Ramsar indicò l’area come zona umida di importanza internazionale e nel 1991, l’Oasi di Torre Guaceto fu dichiarata Area Naturale Marina Protetta.