IL NOME DEL NONNO – I racconti al balcone

di Ida de Giorgio per IL7 Magazine

Gaspare non aveva chiuso occhio. Mentre guardava l’alba dalla finestra, bevendo il primo caffè della giornata, ripensava alle parole di sua nuora. “Ci piacerebbe un nome di famiglia.” Doveva riferirsi per forza ai nonni, visto che la creatura che stava per nascere era un maschio. Ma a quale dei due? Non era entusiasta del proprio nome: Gaspare era proprio brutto e un po’ troppo biblico. Si ricordava ancora il Presepe vivente al paese, quando era condannato a fare la parte del re Magio, mentre gli sarebbe piaciuto tanto fare l’angelo. Non avrebbe voluto un destino simile per il suo primo nipote. Ma anche quello del consuocero non era il massimo: Evaristo. A volte pensava che l’unica cosa che lo accomunava a quel borioso pieno di sé era proprio l’infelice scelta dei nomi di battesimo. Ma fra i due mali, avrebbe preferito il suo. Non era solo una questione di principio, ma di giustizia.
La famiglia di sua nuora li aveva sempre trattati con sufficienza. Gaspare era capostazione, con una brava moglie ad occuparsi della casa e di tre figli. Evaristo era Prof. Dott. Cav. e una serie di altri titoli che neanche ricordava più, con una nobildonna per consorte. I ragazzi si erano conosciuti all’università e si erano innamorati. Ci aveva provato, all’epoca, a spiegare a suo figlio che le differenze sociali avrebbero creato problemi, ma Emanuele si era fatto una grande risata dandogli dell’arretrato bigotto. Proprio a lui, che era sindacalista da sempre e aveva avuto anche la tessera dei Radicali.
Gaspare, però, se li sentiva sempre addosso gli occhi schifati dei consuoceri, la prima volta che erano stati ospiti a casa sua. Elena si era ammazzata di fatica a cucinare. Aveva fatto un brodetto di pesce che neanche Cracco. Gaspare era andato al porto alle cinque di mattina, per comprarlo fresco dai pescherecci appena rientrati. Anche le cozze nere, aveva preso. Le aveva pulite personalmente una per una, come antipasto. E quei cafoni del Prof.Dott.Cav. e consorte le avevano guardate con ribrezzo, sostenendo di “sollecitare il palato” solo con le ostriche. Quanto al brodetto, “i sapori della cultura popolare” non incontravano i loro gusti. Sua moglie aveva le lacrime agli occhi. Per fortuna quella gioia di ragazza aveva dato fondo a due porzioni, pescando con le dita i rimasugli di pesce, incurante del ribrezzo dei genitori. Poi aveva gratificato la futura suocera con un sorriso soddisfatto color sugo rosso. Da allora, ogni tentativo di socializzazione inter-familiare si era interrotto, ma Graziella era diventata, di fatto, una quarta figlia. I ragazzi si erano laureati e specializzati insieme e adesso lavoravano nello stesso Ospedale. A Brindisi. Così Gaspare e sua moglie si sarebbero goduti il piccolino molto di più di quegli antipatici fiorentini pieni di sé.
Già si pregustava di tenerlo per mano a passeggio sul lungomare, in cima al monumento al Marinaio, sulla scalinata delle Colonne. Lo avrebbe portato in barca, a pescare, in spiaggia. Si era ripromesso di evitargli quelle aspirazioni tipiche del dialetto toscano insegnandogli a raddoppiare la “c” alla brindisina. Gli sarebbe venuto un colpo, al “havaliere”. E, soprattutto, il cognome sarebbe stato il suo! Almeno questo, in Italia, non dipendeva da questioni di censo. Ci avevano provato, i Signori, a convincere la figlia ad aggiungere il loro casato, ma Graziella aveva dichiarato che non aveva intenzione di complicare la vita di suo figlio come era stato per lei, che ci metteva due ore a scrivere il proprio nome per esteso. Era stata una piccola vittoria, che aveva riscattato l’affronto del brodetto. Adesso però, c’era questa nuova definitiva sfida.
Quella mattina Graziella si sarebbe ricoverata per un parto programmato e entro sera il bambino sarebbe nato. I nobili toscani erano già arrivati. Il momento della verità era giunto.
Gaspare ed Elena avevano pranzato in silenzio, poi si erano vestiti e seduti accanto al telefono, in attesa. Emanuele era stato categorico: nessuno doveva andare in ospedale prima di avere il suo permesso. Alle 18.00 il trillo li aveva fatti sobbalzare. Si erano incontrati tutti e quattro in ascensore, scambiandosi saluti di cortesia. Poi, finalmente, si erano trovati di fronte a due raggianti genitori con un batuffolino roseo. Otto occhi lo avevano scrutato per trovare delle somiglianze, ma il bambino non aveva alcuna caratteristica particolare. Se il naso somigliava a quello all’insù di Graziella, il taglio degli occhi ricordava Elena. La fronte sembrava alta come quella del dottprofcav, ma non c’erano sufficienti capelli per definirla. Insomma, nessuno poteva vantare il marchio della propria famiglia. “Abbiamo deciso come chiamarlo”, annunciò Emanuele. Il silenzio si fece spettrale. “Abbiamo scoperto che due nostri bisnonni avevano lo stesso nome: ci è sembrato giusto sceglierlo per unificare le famiglie. Vi presentiamo Lorenzo.” Gaspare pensò che neanche Salomone sarebbe stato capace di un tale equilibrio. Lorenzo: come il Magnifico, signore di Firenze e il santo Patrono di Brindisi.
Sbirciò con la coda dell’occhio il consuocero: Evaristo sembrava soddisfatto. Gli porse una mano esitante. Se la strinsero. Una specie di armistizio, prima di nuove battaglie. Nel nome del nipote.