Il pesce rosso: un caso per Andrea Merlo – Racconti al balcone

Fusco entrò in ufficio senza salutare. Si sfilò il giaccone e provò ad appenderlo al chiodo sghembo sul muro dietro alla porta. Riuscì a tenerlo in equilibrio al terzo tentativo. Poi sedette alla sua scrivania, accese il pc e chiese: “Novità?”. Andrea Merlo scosse la testa. Aveva imparato a rispettare la scarsa propensione ai convenevoli del suo collega. Nessun saluto, nessuna parola sprecata. Fusco riservava la sua caratteristica capacità di empatia solo quando si trattava di interrogare un testimone. Aveva la stessa parsimonia anche sull’abbigliamento. Estate e inverno la sua divisa era una polo a manica corta. Andrea Merlo pensava che ne avesse comprato un intero stock e poi avesse sottoposto tutte le magliette ad un unico lavaggio ad alta temperatura che ne aveva fuso i colori dando una sola sfumatura indefinita. Per distinguerle, Merlo aveva cominciato a trovare dei piccoli difetti, propri di ciascuna. Una maglia scucita su un colletto, un bottone riattaccato storto, un bordino più scuro. Quel giorno era il turno del buco sotto l’ascella destra, visibile solo quando Fusco sollevava il braccio per passarsi le dita fra i capelli radi. I primi giorni di lavoro insieme, Merlo aveva disprezzato l’incuria del collega: la sciatteria non si addiceva a un poliziotto, soprattutto quando era in borghese. Poi aveva capito che era proprio quell’aspetto dimesso a dargli un’aria falsamente innocua. Più di un sospettato se ne era accorto troppo tardi. “Vive solo per la figlia” lo aveva aggiornato un agente davanti alla macchinetta del caffè, “la moglie è morta di parto”.
Merlo aveva annuito e aveva cominciato a guardare Fusco con un rispetto maggiore. La figlia era una bella ragazza bionda, fotografata davanti all’ingresso della Bocconi, che sorrideva al padre in una cornice d’argento sulla scrivania. Micheli si era affacciato sull’uscio esclamando: “Giornata tranquilla oggi”. Fusco si era avventato con entrambe le mani sul cavallo dei pantaloni, pronunciando una serie di imprecazioni sottovoce. Tutti sapevano che quelle parole presagivano invariabilmente qualche grossa rogna, in particolare il sabato. Il telefono squillò subito dopo. Lo sportello dell’auto era aperto. L’uomo era riverso sulla riva, con una bustina di plastica fra le mani. Il colpo di pistola gli aveva trapassato il cranio. “Doveva essere piegato sulle ginocchia, quando gli hanno sparato alla nuca”, disse il medico legale togliendosi i guanti, ora sono le undici, direi sarà stato verso le otto”. Merlo annusò la busta. “Odora di pesce” si stupì. “Un pesce rosso” disse Fusco, il lago del Cillarese ne è pieno. Li comprano e poi, quando si stufano, li portano qui. Li abbandonano come i cani”. Micheli intervenne. “Vero. Quando svuotano l’invaso vanno tutti a finire nel porto. Li vedi sotto i pontili della lega navale. Poi muoiono perché l’acqua è salata”.
A Merlo venne in mente il suo unico pesce rosso. Era un bambino e il nonno lo aveva vinto ad una fiera di paese. Non se ne vedevano molti lassù a Cuneo. Era cresciuto nella boccia di vetro, finché un giorno sua madre, spostandola per fare le pulizie, l’aveva dimenticata sul bordo del davanzale, fuori dalla finestra. Quella notte era arrivata la prima neve e il pesce era morto di freddo. Anche Merlo era stato costretto a un cambiamento drastico, dopo il suo trasferimento a Brindisi, ma a differenza dei pesci si era adattato subito anzi, ogni volta che tornava a Castino, finiva con l’avere nostalgia del mare. “Teodoro Ripetti, quarant’anni, coniugato. Informatore scientifico del farmaco. Via Lata. L’avrà ammazzato un concorrente”, Micheli mise i documenti del morto in una custodia e li sigillò. Merlo non la pensava così. Ripetti non avrebbe mai portato un rivale a scaricare un pesce rosso. Era una cosa più intima. Un amico, un parente. Il luogo era troppo isolato per non veder arrivare uno sconosciuto.
Non lo avrebbe colto così inerme. “Chi l’ha trovato?” chiese Fusco. Micheli indicò una nigeriana in minigonna che si stringeva le braccia intorno al corpo saltellando sui tacchi. “Era venuta qui con un cliente e il gentiluomo, quando ha visto il corpo a terra, l’ha costretta a scendere e se l’è filata. Lei ha chiamato la polizia da brava cittadina modello. Almeno così dice”. Fusco si avvicinò alla ragazza e la squadrò da capo a piedi. Lei provò inutilmente ad allungare la gonna tirandola giù con le mani. “Micheli, prendi la deposizione e accompagnala dove vuole” ordinò Fusco. L’agente fece per protestare. “Nel portafoglio c’erano quattrocento euro. Tu ce la vedi una prostituta assassina che lascia i soldi e si prende la briga di telefonarci? E che corre il rischio di essere rimpatriata? È solo una poveretta sfruttata da qualche disgraziato. Anzi, accompagnala da suor Daniela, magari la può aiutare”. Fusco gli fece cenno di andare con la mano, la donna gli dispensò un sorriso. Si avvicinò all’auto e un agente lo aggiornò sul contenuto del portabagagli: una ventiquattrore, un ricambio di abiti, un tablet e vario materiale fra campioni di medicinali e carte. “Cercate impronte che si allontanano o tracce di altre auto. Se c’era qualcuno con lui, come è arrivato e come è andato via?
Merlo, andiamo a vedere dove abita sto tizio” disse Fusco. Andrea Merlo annuì e salì sulla volante. Era il più alto in grado, quando il commissario non c’era, ma non amava dare ordini e si fidava delle decisioni del collega. Su Via Lata non c’erano posti liberi. Fusco parcheggiò davanti ad un passo carrabile e scese lasciando acceso il lampeggiante. Liquidò con un’alzata di spalle la protesta di Merlo che sosteneva sempre quanto fosse necessario dare il buon esempio alla gente. L’abitazione di Ripetti era al primo piano di una palazzina d’epoca. Affacciato al balcone un bambino guardava in fondo alla strada. Una donna lo raggiunse: “Non è ancora arrivato papà? Ha detto che ritornava presto”. “Ci tocca”, sospirò Fusco e suonò il campanello.
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