L’8 marzo è tutti i giorni – I racconti al balcone

Non sono stata una bambina felice. Lasciavo che mi prendessero in giro senza sapere come reagire, ero troppo insicura. Per i bulli era una passeggiata. Però mi piaceva cantare. Davanti allo specchio, mi pavoneggiavo come una rock star e urlavo a squarciagola. Mia madre rideva, mi diceva che ero brava, anche se forse non ci ha mai creduto veramente. Io però lo sapevo, che ero brava. Più mi trovavo contro muri insormontabili, più ero convinta che ce l’avrei fatta, a vivere la vita come volevo. Ho cominciato dalla gavetta, nei locali di periferia dove si esibiscono i gruppi sfigati, solo per il piacere di fare musica. La caparbietà mi ha sempre sostenuto. Volevo, fortissimamente volevo. Sono diventata Lady Gaga in omaggio ai Queen. Mi ha portato fortuna, perché ora sono io, una regina. L’eccentricità e il trasformismo mi hanno fatto conoscere, la passione mi ha fatto amare. Oggi, su questo palco, in un elegante abito nero, con la mia faccia irregolare e non bella, stringo fra le mani il premio Oscar. Non è solo per la mia canzone: è per la donna che sono, per quella che sarò. La winner non è Lady Gaga, la vincitrice è quella ragazzina anonima e timida, dal nome strano: Stefani Joanne Angelina Germanotta. Le winners siamo tutte noi.
Mi piaceva l’idea di essere d’aiuto. Tutti mi ripetevano che si può fare volontariato anche vicino alla propria casa, che era inutile andare così lontano, che era pericoloso. Ma io non avevo paura: chi potrebbe rispondere con il male a chi vuole solo fare del bene? E poi non era una zona di guerra, il Kenya. Centinaia di turisti arrivano sulle spiagge di Malindi. Io ero solo un po’ più in là. Non era un villaggio vacanze, ma ci si divertiva lo stesso. I bambini sono tutti uguali, vogliono giocare. Noi ci riuscivamo con poco: girotondo nel cortile, nascondino, qualche partitella con un pallone di fortuna. Quando sono arrivati quegli uomini, quasi non ci credevo che avessero armi vere. Ho cercato di spiegar loro chi ero, ho urlato mentre mi trascinavano via. Ora ho perso la cognizione del tempo, non riesco più a contare i giorni, non so dove sono. Spero e prego che qualcuno mi stia cercando, in questa giungla umida e scura. Mi faccio coraggio da sola, perché non devo abbattermi: “Sono Silvia Romano, una volontaria, una donna”.
Io neanche sapevo cosa fosse, la meningite. Quella che ha beccato me era veramente cattiva, ma alla fine abbiamo pareggiato: lei si è tenuta le mie gambe e le mie braccia, io la vita. Questa cosa del pareggio non mi è piaciuta molto, così ho deciso che da allora in poi avrei vinto sempre. E non mi sarei accontentata di fare delle cose adatte alla mia nuova condizione. Io avrei fatto quello che mi piaceva di più: sarei riuscita a riprendere “in mano” il mio amato fioretto. Per i tecnici è stata una sfida, ma alla fine sono riusciti a progettare delle protesi che mi permettessero di gareggiare. E di vincere, naturalmente. E quando dico vincere, non intendo le gare di paese, ma le Olimpiadi. Faccio tante cose e mi diverto. Sono testimonial in pubblicità, presentatrice in tv e ho persino cenato con il presidente Obama. Pensa te! La cosa più bella è che la gente mi vuole bene e che quasi nessuno si accorge più delle mie mani e delle mie gambe. Ciò che colpisce di me è il sorriso, quello di una persona felice. Perché è il sorriso che ci fa vincere. Più ridi in faccia alla vita, più quella ti ripaga. Mai abbattersi e sempre credere in noi stesse. In quanto ai guai, meglio trafiggerli con a spada! Ve lo giuro, parola di Bebe Vio.
Ci vuole molta forza per strangolare una persona a mani nude. Anche se questa persona è debole come una donna e, a strangolarla, è l’uomo che fino a poco tempo prima diceva di volerle bene. Ci vuole un supplemento di potenza, quello che ti da la rabbia o la gelosia, che ti fanno perdere la testa e scatenano un raptus. Io questo lo sapevo, avevo letto tante volte di quelle povere donne, massacrate dai mariti o dai fidanzati. Femminicidi, li chiamano. Come se andassero distinti da un omicidio normale. Io pensavo che colpire una donna, un essere inerme e indifeso, fosse un atto di vigliaccheria e andasse considerato come un aggravante. Mi sbagliavo. Quando è toccato a me, i giudici hanno ritenuto che il mio assassino fosse “preda di una tempesta emotiva” e quindi colpevole a metà. Io non ne capisco di leggi, non so cosa abbia convinto i giudici a mitigare la condanna, sono solo una povera donna, che credeva alla giustizia e voleva vivere la sua vita. Se avessi ancora una voce e potessi chiedere, vorrei una epigrafe che recitasse così: “Qui giace Olga Matei, che avrebbe dovuto fuggire vedendo il leone, ma non sapeva di essere gazzella”.