
Gennaro stava saggiando la cottura degli spaghetti quando sentì il cigolio delle porte dell’ascensore che si aprivano. Controllò l’ora. “Strano” pensò, “ormai sono rientrati tutti”. Cominciò a contare e arrivò a cinquanta, prima che il ronzio della salita si interrompesse. “L’attico. Possibile che il vecchio Gentili sia tornato dalla casa di riposo? Forse è il figlio?” continuò a interrogarsi mentre scolava la pasta e la condiva con il sughetto appena fatto. Poi corse a prendere l’agenda sul comodino, la aprì alla pagina del giorno e scrisse l’ora accanto al nome Gentili, con una piccola freccia rivolta in alto. Prendeva nota di tutti i movimenti, proprio come faceva sua madre, addetta alla portineria di un palazzo di uffici. Quando lo portava al lavoro con sé, Gennaro aveva il permesso di aiutarla, cercava il nome dell’impiegato in entrata o in uscita sull’elenco e lo spuntava con una crocetta. Era arrivato a Brindisi molti anni prima, per fare compagnia alla sorella rimasta vedova troppo giovane.
Gli era dispiaciuto lasciare Napoli, ma lei aveva insistito perché sentiva la responsabilità di quel ragazzo cresciuto nel corpo ma non nella mente. “Nu poco alla bona” lo definiva, con un improbabile accento brindisino-partenopeo, spiegando che l’abitudine di Gennaro di controllare i movimenti degli inquilini era dovuta più ad una innocua fissazione che alla voglia di spiarli. Col tempo, gli abitanti del palazzo si erano abituati alla sua tranquilla presenza e l’occhio attento dell’uomo aveva finito per far comodo a tutti. Abitando al piano terra, vigilava sugli ingressi come un piantone a guardia della caserma e nessun estraneo passava inosservato. Inoltre, dopo la morte della sorella, gli inquilini avevano cercato di tenerlo occupato per non fargli sentire troppo la solitudine, gli davano piccole commissioni da fare, lo avvisavano nei periodi di assenza e a volte gli lasciavano le chiavi dell’appartamento perché innaffiasse le piante o desse da mangiare al gatto. Gennaro si prestava volentieri, non accettava mance in denaro ma era contento di ricevere qualche bottiglia di vino buono. Ne beveva un bicchiere dopo cena, per conciliare il sonno. Non prima di essersi accertato che tutti fossero al sicuro nelle proprie case. Era difficile che restassero in giro di sera tardi, perché viaggiavano oltre la settantina, come lui.
Era intento a sciacquare il piatto quando gli sembrò di sentire di nuovo il rumore dell’ascensore. Si precipitò alla porta d’ingresso, socchiudendola. Il nipote della signora Rossi del secondo piano lo vide e cominciò a ridere, miagolandogli contro: “Sai cosa successe al gatto ficcanaso?”. Gennaro rise con lui, conosceva il ragazzo da quando era bambino e sapeva che era un modo scherzoso di salutarlo. Ritornò in cucina, dopo aver preso nota anche di questo evento. Si versò due dita di Negramaro, prima di accoccolarsi sulla poltrona davanti al televisore. Si sintonizzò sul suo programma preferito, sforzandosi di indovinare i mestieri di quelle facce di bronzo senza sorrisi.
Non aveva mai capito come facessero a restare impassibili, lui non sarebbe stato capace di mascherare l’emozione in quel modo, soprattutto alla fine. Però non riusciva a concentrarsi. Chi era salito al quinto piano? E perché non era ancora sceso? Possibile che il signor Gentili non lo avesse avvertito del suo ritorno? Decise di togliersi ogni dubbio. Aveva paura degli spazi stretti, perciò salì a piedi lentamente, mantenendosi al corrimano e fermandosi ad ogni pianerottolo per riprendere fiato. Arrivato all’attico suonò il campanello, un trillo appena accennato. Busso un paio di volte: “Signor Gentili, sono Gennaro. Ci siete?”. Nessuna risposta. Poggiò l’orecchio sulla porta, gli sembrò di sentire un respiro leggero. “Devono aver lasciato un finestra aperta” pensò, prima di ritornare nel suo appartamento. Ad ogni gradino aumentava la sua perplessità. Lo sapevano tutti che aveva bisogno di far quadrare i conti alla fine della giornata. Tanti usciti, tanti entrati. Se qualcuno avesse alterato l’ordine quotidiano, lo avrebbe avvertito. E allora perché nessuno lo aveva avvisato? Forse aveva fatto qualcosa di sbagliato? Non poteva andarsene a letto con quella preoccupazione. Decise di inviare un messaggio.
Gli avevano insegnato a registrarlo, visto che aveva difficoltà a scrivere sullo schermo: “Sono Gennaro. Per caso è rientrato e non mi ha detto niente? Non mi avete aperto perché vi siete offeso?”. Così poteva andare bene, tornò a sedersi aspettando una risposta. Sentì di nuovo il rumore dell’ascensore che saliva all’attico per poi scendere. Questa volta avrebbe affrontato la situazione, si piazzò a braccia conserte davanti alle porte. Il ragazzo non lo vide subito, intento com’era a caricarsi sulle spalle un borsone tintinnante, poi sollevò lo sguardo e sobbalzò.
Gennaro si svegliò con un gran mal di testa. Una lama accecante gli frugava nell’occhio. “Come si sente?” chiese la luce. Gennaro si guardò intorno, era disteso su una barella, circondato da tutti i condomini. Un paio di Carabinieri stavano controllando il contenuto del borsone. “Che è successo?” chiese. “Sei un eroe” disse la signora Rossi, “hai fermato tutto da solo un maledetto ladro. Bravo”. Ascoltò il resto della storia mentre veniva accompagnato in ospedale. Il ladruncolo era un inserviente della casa di riposo, che aveva sottratto le chiavi e aveva ripulito la casa di tutto l’argento e i gioielli. Il messaggio aveva impensierito il signor Gentili, che aveva avvisato il figlio e quest’ultimo aveva chiesto ai Carabinieri di fare un controllo. Ed erano proprio loro che l’avevano arrestato mentre usciva dal portone, dopo averlo colpito con un candelabro.
“Vedrà che le daranno una ricompensa” gli augurò l’infermiere, ma a Gennaro non interessava. La cosa importante era poter disegnare una piccola freccia nella casella vuota della sua agenda.